L’Europa è luogo di incontri culturali, di intersezioni fra popoli ed economie che possono arricchirsi a vicenda, è lo spazio degli scambi Erasmus, del libero movimento delle merci, oppure il continente delle guerre, dello sfruttamento e della chiusura ermetica di fronte ai bisognosi? Siamo ancora capaci di cantare le canzoni degli altri popoli, o le consideriamo aliene, secondarie, se non addirittura inni di un nemico?
I “Muri” sono caduti da più di trent’anni ormai, ma di nuovi se ne stanno costruendo in mezza Europa, per affermare la propria “sovranità” e/o difendersi dai flussi migratori. Nei primi minuti di questo film osserviamo partecipi lo sgomento del sindaco di una cittadina ungherese, che ricorda quando finalmente divenne anche per lui possibile viaggiare liberamente, dopo anni di regime e di chiusure, ma che è ora costretto contro la propria volontà a far posizionare delle reti di filo spinato su disposizioni governative e sotto il vigile controllo della Polizia. Sembra di poter dare ormai come verità assodata e incontrovertibile il triste fatto che la Storia all’essere umano non può insegnare nulla, e che studiarla non ci porterà a fare meno guerre, ma al massimo a gestirne meglio le conseguenze. Nel suo saggio filmico in più episodi Vadim Jendreyko, nato in Germania una sessantina di anni fa, ripercorre alcune faglie di divisione che hanno attraversato il Vecchio Continente, cercando di cogliere motivazioni comuni per i conflitti esplosi negli ultimi cento anni, possibili linee di composizione per le divisioni, vecchie e nuove, sorte fra le nazioni europee, e ancora interrogandosi sulla possibile, forse utopica “coralità” delle varie “canzoni” che danno voce alle molteplici nostre culture. Può un musulmano di Bosnia cantare insieme ad un serbo ortodosso dopo ciò che è successo a Sarajevo, al confine fra mondi neolatini e germanici fra Francia e Belgio si può scavare in profondità per trovare non più solo proiettili inesplosi della Prima Guerra Mondiale, ma anche radici comuni che ci permettano di suonare in un “concerto” di buone intenzioni realizzate?
Jendreyko nelle interviste ha detto di ricordare con gioia la sensazione della riapertura delle frontiere vissuta qualche decennio fa, rammenta la diversità, la novità continua degli spostamenti nel triangolo franco-tedesco-elvetico dove ha vissuto da giovane, in zone di confine dove suoni, lingue, odori diversi si mischiavano e ne arricchivano le esperienze. Egli ha una carriera ventennale alle sue spalle, e dimostra di saper trovare i giusti interlocutori alle varie latitudini, che possano rispondere ai leciti e attualissimi dubbi che egli si pone. Questo suo “Il canto degli altri” batte bandiera svizzera e proprio all’importante festival di Nyon “Visions du Réel” ha avuto la sua prima mondiale, ma approfittiamo volentieri di questo suo ulteriore passaggio in Cechia per interrogarci insieme con l’autore su questioni scottanti, che sembrano mettere in dubbio la stessa possibilità di una Comunità Europea realmente funzionante. Egli divide in tre macro-parti la sua peregrinazione per vari Paesi (Belgio, Norvegia, Bosnia, Polonia…) alla ricerca di voci in sintonia, o per lo meno di uomini coraggiosi, di maestri di coro che provino a far vibrare in unisono senza stecche e discordanze gli strumenti spirituali e musicali dei popoli che incontra. La prima parte, forse la più interessante e originale, più che di quelli musicali si occupa di strumenti di distruzione: seguiamo infatti il lavoro delicato e meritevolissimo di un’associazione belga che si occupa di disseppellire le migliaia di bombe, mine e proiettili d’artiglieria rimasti inesplosi dai tempi della Grande Guerra. Veniamo così a scoprire che a quel tempo un terzo dei colpi sparati faceva cilecca, e che per delle inevitabili leggi geologiche tutto ciò che è sepolto anche sotto diversi metri di terra alla fine riemerge in superficie (il che ha anche un portato macabramente simbolico), costituendo così un pericolo attuale. È una sorta di regalo indesiderato quello che i nostri antenati in lotta sui Vosgi o sulle Ardenne, attorno a Sarajevo o ora in Ucraina, hanno lasciato ai propri figli e nipoti: ciò che non uccise loro può uccidere noi, in quanto, appunto, invece che con melodie musicali quegli schieramenti contrapposti hanno fatto rimbombare l’aria con i toni bassi e lugubri dei cannoni. Bastano i desideri e gli sforzi di Bruxelles e delle istituzioni comunitarie a riportare le note giuste in queste lande disseminate di cadaveri e razzi? Un rapido salto del dubbioso Vadim nella sede del Parlamento Europeo riporta in primo piano appunto tali lecite perplessità.
Il regista si sposta poi, fra gli altri luoghi, nella biblioteca di Sarajevo, intervistando uno dei pochi generali serbi che decisero di stare dalla parte degli assediati, e uno dei meravigliosi restauratori di libri, che provano a recuperare miracolosamente quando fu distrutto dall’ignominia dei bombardatori di libri. Gli intervistati nella capitale bosniaca non si fanno troppe illusioni, non sempre le ferite degli anni Novanta si sono rimarginate, ma qualche segnale di speranza c’è, rappresentato per esempio da un coro, il “Pontanima”, che unisce varie etnie e riferimenti culturali, cercando di ricostruire almeno un’ombra di quell’unità sinfonica di cui sopra.
Non tutte le sezioni di questo lavoro sembrano ben amalgamate con il resto, alcune sono solo abbozzate (un bunker hitleriano, la foresta di Bialowieza in Polonia dove un ornitologo più che a quelle umane dà fiducia alle voci degli uccelli…), come se si fosse davanti ad un menù di portate dalla diversa consistenza…Anche alcune notazioni, come il ruolo fondante della cultura classica greca, contrapposto alla crisi economica di qualche decennio fa, non sembra essere adeguatamente inquadrato in una argomentazione ben impostata nell’incipit, come se Jendreyko avesse voluto forzosamente unire spunti diversi, per quanto tutti stimolanti e ben sviluppati, ma si fosse un po’ perso nel mezzo del suo “spartito”.
Rimane questa, comunque, una riflessione non banale sulla triste musicalità bellica del nostro continente, che, come conferma l’Ucraina, qua e là citata visivamente con le sue nuove rovine urbane, non sembra proprio riuscire a sintonizzare i clangori di battaglia in un durevole e pacifico Inno alla Gioia.