Un barbutissimo Joaquin Phoenix è il silenzioso protagonista del mondo saturo di rumori e musiche che Lynne Ramsay va a raccontare con You were never really here, presentato alla 70esima edizione del Festival di Cannes. Beninteso, questa volta non c’entra nulla Casey Affleck, nonostante l’assonanza fra titoli con I’m still here e la situazione pilifera di Phoenix, ma siamo piuttosto di fronte alla decostruzione estetica di un classico del cinema di produzione americana (a cui Ramsay, pur scozzese, si rivolge) che prende le mosse dall’omonimo romanzo di Jonathan Ames.
Joe è un ex-soldato, ex-FBI, ex-abusato e via dicendo ormai convertitosi alla professione di sicario. Il suo contatto lo mette in contatto con un senatore pronto a pagare qualsiasi cifra per sottrarre la figlia quindicenne al giro di prostituzione minorile in cui è finita, compito che però porterà Joe a scoprire un complesso sistema di corruzione, potere ed eccessi che fa capo al governatore uscente.
Nulla di originale. I rimandi a Taxi Driver si sprecano: atmosfera, politica corrotta, abusi infantili, prostituzione e violenza, redenzione e dannazione, brutalità accompagnata da evasivi ritmi rock. Ramsay prende proprio questo topos nella sua interezza e cerca di smontarlo, disassemblando le tematiche di cui sopra preferendo isolarle affidandone la comprensione all’estetica. In You were never really here conta poco quello che succede, conta invece assai di più ciò a cui dà adito e le modalità con cui viene messo in scena. L’operato di Ramsay è registico, prima di tutto, e si configura come una strabordante ricerca visiva che mira al pieno ritorno sullo spettatore di ogni immagine, cercando di svelarne la nudità. A ogni scena ne segue una più satura, più potente, più stonata rispetto alla precedente che consente un gioco di ammirazione lungo un’ora e mezza, capace di restituire con la sua conclusione l’interezza del quadro sempre più macellato e strappato durante il film.
Ramsay cerca l’esasperazione visiva, abbandonando la staticità che caratterizzava i suoi tre film precedenti e riversa incessantemente idee su idee, fino al punto che l’immagine trabocca di se stessa, si rovescia, assumendo come significato tutti i suoi opposti. Quest’immagine è martellante né più né meno del protagonista, che reagisce a una serie interminabile di stimoli ingestibili anestetizzandosi con il dolore, frapponendo fra sé e l’impossibile ricerca di risposte tante situazioni meno determinanti che lo tengano impiegato nella mente nel fisico. E soprattutto nel fisico. La percezione del proprio corpo è difficile per Joe/Phoenix, a cui le basilari risposte biologiche riportano alla memoria ricordi indesiderati, come quella stanzetta senza finestre che con la propria calura asfittica fa rivivere il caldo dell’Iraq o dell’Afghanistan; cioè lo scenario di un’atrocità in particolare con cui il mercenario non verrà mai a patti. Non è possibile infatti, farlo con quella bambina uccisa per una tavoletta di cioccolato lasciata a raspare la terra con un piede per sentire qualcosa negli ultimi istanti di vita.
Il martello brandito da Joe urla in questo senso un nemmeno troppo recondito desiderio di morte, come a volersi mettere su un piano svantaggiato, come a non rischiare costantemente di sopravvivere. Il montaggio a sua volta martella, specie nella seconda parte del film, prendendo il posto di quelle anime perse, il sicario e la ragazzina, che ormai non hanno più nulla da dare. Picchia ripetutamente, togliendoci da davanti le immagini più crude e sorprendenti dopo pochi attimi, rimanendo nervosamente immobile invece innanzi agli innaturali attimi di calma. Succede questo quando Ramsay sceglie di enfatizzare il sodalizio fra vittime, sdraiando il suo personaggio principale accanto all’assassino della madre. A questo punto i momenti intimamente kitsch iniziano a sommarsi, perché nel “traboccare” elevato a chiave filmica fanno capolino anche il rapporto patetico con la figura materna e una redenzione impossibile che contrasta con questo mondo di vizi e peccato fine a se stesso a tinte un po’ sbiadite, scevro da connotazioni sociali, sempre presenti nel sottotesto di We need to talk about Kevin (ben inserite) o Morvern Callar (con risultati opposti).
La nostra purtroppo non riesce a emanciparsi da quello psicologismo pasticciato ormai onnipresente in America e da una critica benaltrista a un sistema marcio ma comunque sempre visto attraverso i crismi della responsabilità individuale, e in ciò consiste la zavorra che frena l’ascesa di You were never really here verso un cinema capace di riflettere a pieno sulla propria natura. Rimane una grande prova, seppur inferiore sia al già citato We need to talk about Kevin e al mai superato esordio Ratcatcher. Lynne Ramsay è anche in parte consapevole dei limiti della sua opera quarta, del fatto che non può ambire a soddisfare appieno le sue promesse totalizzanti, ecco perché con il finale ci spiazza completamente, dando vita alle ragioni per cui questo film vale veramente la pena di almeno una visione.
Dopo quel tentativo di suicidio che introduce la climax finale, tutto si rarefa, la rinascita non avviene, non c’è un risollevarsi celebrativo in reazione alla sofferenza subita che fa molto USA, nulla di nulla. Anzi, di fatto in quegli ultimi vibranti venti minuti non succede quasi niente dal punto di vista scenico. L’ultima forte scelta registica di Ramsay ribalta ulteriormente la chiave estetica, sradicando la violenza dalla mdp dandola per scontata e coronando la sequenza con uno stacco disorientante capace di regalare una grottesca chiusa a schiaffo, con ogni cosa che va a riassumersi nel fastidioso raschio di una cannuccia di plastica sul fondo di un bicchiere. Si rende impossibile inoltre sorvolare sul fatto che per la prima volta Lynne Ramsay ritorna in patria dalla Francia con due riconoscimenti, ovvero la miglior interpretazione maschile per Joaquin Phoenix, che ci dice che ogni tanto le giurie riescono ad assegnare un premio secondo merito, e il Prix du scénario, che invece ci ricorda che anche quando questo avviene, avviene per caso.