Quattro donne, quattro modi diversi di vivere l’amore e la sessualità, di dettare modi e modi di rapportarsi col mondo. Come se gli uomini fossero il sesso debole, il lato incomprensibile di un mondo. Ma è davvero così? Che ruolo hanno gli uomini nella costruzione dell’immaginario della serie più femminile di sempre? E che atteggiamento c’è nel film?
Se cercare di capire, analizzare, identificare l’universo femminile della serie di Darren Star e Michael Patrick King è compito tanto complesso quanto semplice – vista la quasi esclusività del punto di vista femminile, più curioso e meno inquadrabile risulta fare lo stesso con il lato maschile del prodotto.
Perché per sei stagioni, gli uomini – o nel peggiore dei casi, i maschi – hanno fatto quasi sempre da contraltare indefinito, da spalla, da ripiego, o da semplice argomento di discussione, riuscendo raramente a venire fuori come personaggi e caratteri. Ma a ben vedere, di materiale per discutere e provare a riflettere, ce n’è a sufficienza.
L’universo virile è rappresentato all’apice della sua crisi esistenziale, chiaramente coincidente con la vetta della consapevolezza femminile del corpo, del sesso, dell’emancipazione dai bisogni (e non dalla loro negazione): se le donne cominciano a pensare, vivere, soprattutto parlare di sesso come gli uomini, i maschi devono farsi da parte, e vivere l’amore come un conflitto tra posizioni apparentemente dominanti. Da cui ne escono spesso sconfitti.
Specchio perfetto e prova tangibile della difficoltà maschile, è il parterre di uomini di cui Carrie si circonda: il grande amore della sua vita è un bambino mai cresciuto, che odia l’idea dell’impegno, della responsabilità, dell’età adulta e che fugge dal matrimonio con lei, perché sa che è la donna giusta, che sarà per la vita, a differenza degli altri suoi matrimoni, falliti in partenza.
Aidan, Berger, Petrovskij fanno solo da corollario al teorema Big, confermando e approfondendo gli aspetti che Star e soci cercano di mettere in luce dei figli di Marte: poca praticità e chiusura mentale nel rapporto con la vita, egoismo travestito da fascino tenebroso, paura dietro la sicurezza della propria intelligenza: incapacità di accontentare, rendere felice e capire una donna.
La ricerca quasi ossessiva di una felicità a cui neanche le protagoniste sanno dare un volto, porta obbligatoriamente i maschi a richiudersi, a ripiegare. O almeno a farsi subalterni, come Steve per Miranda. Perché quando cercano di prendere la posizione che un tempo spettava loro – almeno per cultura – devono scontrarsi con un cambiamento inesorabile dei tempi, come per il primo marito di Charlotte, Trey, impotente per disperazione, o uno degli uomini di Samantha, abbandonati perché incapace di star dietro a una donna, così definitivamente moderna.
Il film, per ragioni di ampliamento di target (quindi meramente commerciali), dà ai maschi più sfumature positive, più sfaccettature rassicuranti – anche in situazioni discutibili (come nel caso di Steve) – ma non rinuncia alla stoccata ai benpensanti e alle facili conciliazioni, tanto che Samantha lascia l’uomo della sua vita, forse l’unico per lei, proprio per questo motivo, perché vivere per un uomo, significa non vivere:
soprattutto se gli uomini appartengono a quella specie di cuccioli capricciosi, così facili da addomesticare (se lo si vuole veramente), che per sei anni la serie ha cercato di farci conoscere come lo specchio meno vitale dell’identità femminile.