Ash is purest white è un film nascosto, innanzitutto perché si snoda sottile tra un prima e un dopo prettamente filmici e diversi livelli di realtà connessi fra loro in un modo inconsueto, tanto da trovare un senso pieno solo se si volge lo sguardo all’intero discorso autoriale di Jia Zhangke e lo si concepisce come una sorta di universo espanso tenuto in vita da una ragnatela di associazioni di idee, parallelismi, incastri. Come Al di là delle montagne poteva essere compreso appieno unicamente tenendo conto dell’architettura delle scelte di regia nei tre segmenti e in particolare considerandole una retrospettiva sottotraccia dell’evoluzione del regista cinese da Unknown pleasures in poi, così per Ash is purest white bisogna reiterare il procedimento portandolo a un grado di complessità ancora maggiore, coinvolgendo più elementi: i giochi di sottrazione in alcuni dei film precedenti, gli scarti di lavorazione e la censura, i riferimenti dello stesso Zhangke.
Presentato quasi un anno fa alla 71esima edizione del Festival di Cannes e forse – incrociamo le dita – in arrivo qui in Italia in tarda primavera con l’orripilante titolo I figli del Fiume Giallo, l’opera in questione a prima vista sembra imparentata solamente con quella immediatamente precedente cui abbiamo già accennato, ma rivela nel suo dispiegarsi un intreccio di relazioni ben più fitto. La apparentemente soprassedibile polemica sul titolo non è del tutto gratuita poiché il titolo originale è (oltre che un omaggio a Fei Mu) un lemma polisemico che indica in generale qualcosa o qualcuno che è in minoranza, o scomparso, o in una certa misura nascosto – appunto -, ma può tradursi, letteralmente, anche come “figli del fiume”. Magari non del Fiume Giallo visto che la narrazione è ambientata per la maggior parte a Datong (nella regione dello Shanxi, dove è nato il regista e si trovano solo montagne, miniere e il Fiume Azzurro), ma dopo Il sacrificio del cervo sacro vale praticamente tutto, è già tanto riuscire a vederlo.
Lo Shanxi era stato già declinato da Zhangke in più di un modo, tuttavia egli sente sempre il bisogno di ritornarci, e raccontare un’altra storia interamente nascosta nelle pieghe delle opere precedenti, insistendo poi sul concetto stesso stesso di immagine, e di osservazione, costringendo i personaggi a confrontarsi con una rappresentazione che non concepiscono dovendo però al contempo abbandonarne altre che esistono solo nella loro testa. La testa è quella di Qiao, ex-ballerina riciclatasi come “donna del boss” che, nel tentativo di aiutare l’amato Bin durante uno scontro urbano, farà fuoco con una pistola venendo condannata a cinque anni di prigione e finendo quindi per impattare con una realtà radicalmente differente da quella che conosceva e dover ricominciare da capo una volta scarcerata. Il focus rimane sempre sulla trasformazione rapida e totale della Cina, raccontata anche qui in tre frammenti, collegati con altri film più di quanto non siano collegati fra di loro: Zhangke è uno di quei registi che si fa fatica a seguire se non se ne conosce il percorso artistico, proprio in quanto raccontando sempre la stessa storia, ci si deve concentrare sulle variazioni, sugli elementi che vengono superati e su quelli che rimangono mutando forma nel farlo.
E Ash is purest white vive/resuscita da vecchie sequenze girate ai tempi di Unknown pleasures e Still life, a partire proprio dalla sequenza iniziale che pone all’origine di tutto un footage documentaristico dello stesso Zhangke, e che “culmina” nel momento in cui una bambina che dormiva in autobus si sveglia e sgrana gli occhi impauriti ed espressivi di fronte alla mdp, scoprendosi consapevole dell’osservazione altrui, di un’immagine di lei medesima che non le appartiene che diventa tale però solo nel momento stesso in cui la vede. Questo sottile incipit non dà vita a un gioco di specchi però, il rapporto è asimmetrico, è un prender coscienza di una cosa altra. Qiao è chiamata infatti nel corso del film a prendere consapevolezza di immagini che non sono le sue, e a diventare immagine a sua volta, nel senso che perderà ogni legame con la realtà, non ne farà più parte – non a livello psicologico, ma sul piano del tessuto sociale. Il film viene a galla con tutta la sua complessità solo nella terza parte, nuovamente nello Shanxi, dopo una prima sempre nella regione e una seconda nelle Tre Gole; luoghi, rispettivamente, di Unknwon pleasures e Still life. I primi due segmenti sono evoluzioni alternative e nascoste di alcuni momenti topici delle opere del 2001 e del 2005, che con gli ultimi quaranta minuti di Ash is purest white vanno a disegnare un altro film ancora in una sorta di spirale dialettica, estrapolandolo dalle pieghe di quella parte della sua filmografia.
In questa misura parlavamo di “universo espanso” in un senso non convenzionale, quando le opere cui abbiamo fatto riferimento nelle righe sopra vanno a intrecciarsi in più modi, come un giocattolo da smontare e rimontare a piacimento in diverse forme ogni volta in grado di dire qualcosa di diverso ma non tutto insieme, necessitando quindi di un rimodellamento continuo per arrivare al quadro d’insieme: la storia che ci racconta Zhangke è sì sempre uguale ma nel girare in circolo sale, disegna altri anelli. I richiami (che poi sono congiunture) sono pochi, ma ci sono, il più evidente è il nome della protagonista, ripetuto per la prima volta dopo il 2001, e poi vengono i vestiti nuovi fuori di prigione che sono di Qiao ma erano quelli di Shen, o gli anni in cui sono ambientati i primi due scaglioni che sono gli stessi di uscita degli altri due film, le cornici di pietra a ritagliare i passaggi, e via andare. L’azione da un punto di vista extra-cinematografico, più teorico, è potentissima, significa rivalutare, trasformare il sottratto in altro ancora e volgerlo in senso generativo, dandogli nuovo senso, usarlo per incidere due volte, la prima in senso negativo, la seconda in senso positivo.
E questo modus operandi si riflette (o si ripercuote?) all’interno del film in senso diegetico, ovvero se fuori il discorso filmico porta alla luce un’immagine di senso alla volta relegando le altre al non-visto che prima non conoscevano, allora dentro, narrativamente i personaggi vedono il mondo davanti a loro articolarsi in figure delle quali essi stessi fanno parte, trovando spazio nella Cina contemporanea, ottenendo così di essere come espulsi dal consorzio del reale quando il mondo cambia senza che loro possano dire alcunché. Ciascun frammento illustra un rapporto diverso, di Qiao soprattutto ma anche dei personaggi secondari come Bin, nei confronti dell’immagine così come è data e come essa si offre a essere interpretata. Nella prima parte è facile per tutti, poiché Qiao può staccare la spina (letteralmente) al passato maoista del paese che acquisisce le sembianze di una stazione radiofonica abbandonata, può ballare i Village People in discoteca e minacciare giovanotti troppo baldanzosi appena un’ora dopo grazie alla posizione che occupa, identificandosi come una figura chiave nella nuova Cina, quella degli intrallazzi illegali con la malavita dei quartieri per consentire un più celere sviluppo. E qui la coppia è ancora parte della rappresentazione e quindi della storia, perché svolge il suo ruolo, riempe uno degli spazi lasciati vuoti come da copione più grande, un copione mutuato ad esempio da proiezioni rituali del cinema gangster cinese (un po’ come i Soprano guardavano Scorsese), ma siccome un conto è la finzione, la parte e tutt’altro la realtà, va bene portare la pistola nei pantaloni o farne un simbolo di novello romanticismo, ma sparare per davvero no, e quindi ecco che se in Ash is purest white fingi di essere in A touch of sin vai in prigione per davvero.
Allo stesso modo nella sezione successiva Qiao, uscita dal carcere, si scontra con un mondo che non ha più nulla di quello che lei ricordava. Bin è un altro uomo, le Triadi non esistono più in campagna ma hanno preso possesso dei grattacieli metropolitani, la cultura dell’onore è stata degradata a superstizione: la nostra protagonista è chiamata a venire a patti con il fatto di non poter far parte di quello che vede, può solo guardare e da qui scaturiscono l’impegno, gli espedienti, la tenacia e la forza di volontà drammatica di chi non accetta di fare solo da spettatore, salvo poi dover trovare un compromesso. La Cina è andata avanti, a cavalcare questo nuovo apocrifo “balzo in avanti” è la nuova generazione, di cui Quao e Bin sono i genitori, mentre per loro non c’è spazio: a esprimere più di tutto il resto con prepotente eleganza è la sequenza della della foto-cellula, una tecnologia che non è certo familiare per Qiao, e che quando viene da lei affrontata per la prima volta, per via di un guasto casuale non la riconosce, privandola per pochi momenti della sua esistenza, riducendola a immagine catturata (immortalata), unico elemento immobile in frenetico via vai che accentua lo spaesamento. E daccapo nel finale, quando accettare di essere diventati vuoto ricordo, immagine di repertorio è l’unica via per proseguire. E non resta che ritornare da dove si proviene, comportandosi come un tempo recitando così di nuovo una parte, sforzandosi con imbarazzo di sorvolare sul rumore del treno ad altissima velocità che fa tremare le costruzioni precarie, o di ignorare le gerarchie cambiate che ora sorridono agli impacciati membri della gang di allora, divertiti all’idea di prendere in giro il loro vecchio capo oggi semiparalizzato quando quindici anni prima era Bin a umiliarli, e tutti erano ignari che i tempi sarebbero cambiati in questo modo, così brusco, così onnipervasivo, tanto da non riconoscere più nemmeno la geografia dei luoghi della gioventù.
È rimasta solo la cenere, cioè il bianco più candido poiché, come il colore bianco è la somma di tutti gli altri, la polvere è il generico aspetto assunto da tutte le cose che sono bruciate; ed è un motivo, per quanto leggermente stucchevole, che ritorna più o meno esplicitamente nel film – perché sì, i cugini distributori d’oltremanica, dov’è arrivato poco dopo il festival di Cannes, saranno pure impegnati a far sembrare la Brexit e “l’ultima data utile” per evitare il delirio del no-deal come l’ultima-e-imperdibile-valida-solo-per-oggi offerta di Eminflex, ma i titoli sanno farli. Del resto non si può fare a meno di ripetersi, quando si affronta un’opera del genere, e far presente che si tratta non certo di un film che brilla di luce propria o si distingue rispetto ai predecessori, ma che rappresenta un passo decisivo nell’evoluzione di Zhangke. Anche se forse ormai siamo giunti al punto in cui il regista cinese è andato oltre questo modo di pensare il cinema e rimarrà sempre improntato su questa dialettica compositiva, rendendo più arduo valutare come opera a sé stante i suoi prossimo film, a partire proprio da Ash is the purest white se non ancora da qualche anno prima. Non che questo sia privo di identità, anzi, ma basandosi su una tale costituzione di fondo rende difficile anche la logica del paragone, quantomeno su scala macroscopica. Andando a scomporre il tutto nei singoli aspetti allora è facile notare come la lectio tecnica impartitaci con Mountains may depart abbia fatto (e farà ancora) da nucleo del linguaggio della mise-en-scène a tutto tondo, dalla regia alla fotografia, e di come questa non possa che essere la migliore prestazione di Zhao Tao in assoluto, totale nel reggere il peso del film sostanzialmente da sola per quasi l’intera durata, che si esaurisce purtroppo con quel frame finale di infinita durezza, prigioniera non di se stessa magari o di un qualche meccanismo sociale, ma di una telecamera che la intrappola nella sua registrazione digitale, un’immagine maciullata dalla bassa risoluzione che non rende nemmeno visibili i tratti del suo volto, facendo invece scorgere a malapena la figura intera appoggiata contro la parete: il finale più brutale del cinema di Zhangke, da un lato perché va a cogliere qualcosa di umano e individuale e non più solo socio-politico, dall’altro per l’interpretazione vivissima di Zhao Tao, quella di una persona ridotta a simulacro di sé.
Ash is purest white è il solito film di Jia Zhangke, arrovellato su se stesso e ricco di elementi interessanti solo se lo si guarda e analizza tenendo ben presente tutta una serie di altri fattori e altri film? Sì. Ma è anche qualcosa di più, e vale la pena passare sopra tutte le brutte traduzioni del titolo per capire perché.