E’ inusuale partire dal luogo della proiezione, ma in questo caso il contenitore è già pieno di contenuto, di memoria. Siamo nella zona sottostante dei binari della Stazione Centrale di Milano, uno spazio speculare progettato per separare le merci dai passeggeri; binari nascosti il cui accesso era a lato della sede della Posta. Dal dicembre del ‘43 al gennaio del ‘45 qui furono caricati sui carri bestiame donne, uomini e bambini provenienti dalle carceri di San Vittore; “pezzi” da trasportare, compressi più delle bestie, per migliaia di kilometri sino ai campi di lavoro e di sterminio. Ebrei, prigionieri politici, Rom e Sinti, in tutto venti convogli; i loro nomi ora si illuminano a turno su un tableau a lato del binario, per ricordare chi non è più tornato e i pochi che sono sopravvissuti. In questo luogo, che ha mantenuto le caratteristiche originarie, la cui atmosfera è raggelante, si è consumata una tappa della Shoah. Qui si ammassavano i corpi, lontano dallo sguardo dei milanesi d’allora; era un luogo nascosto che facilitava l’esercizio dell’indifferenza: forse si sapeva, si intuiva, ma rendeva facile girare lo sguardo.
La parola della grande colpa di molti è stata proprio l’indifferenza, la stessa parola che ora, a memento, ci accoglie all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano.
http://www.memorialeshoah.it/memoriale-milano/
Oyneg Shabes, in yiddish “La gioia del sabato”, è stata l’organizzazione clandestina fondata all’interno del ghetto di Varsavia da una sessantina di intellettuali, allo scopo di raccogliere le memorie individuali che avrebbero testimoniato, raccontato la storia, quella vera, in opposizione all’ampia propaganda antiebraica creata e diffusa dai nazisti. Una resistenza di uomini, donne e bambini, scritta, disegnata e fotografata: saggi, diari, manifesti murali e altri materiali che potevano testimoniare la vita nel ghetto.
Era il 1940 quando i nazisti perimetrarono una zona di Varsavia alzando i muri del ghetto per concentrarvi 450mila ebrei, di cui 100mila morirono lì, nell’arco di tre anni. Lo storico Emanuel Ringelblum, comprese che un momento storico stava avendo inizio e che la fine sarebbe stata inevitabile; e come forma di resistenza occorreva produrre una controinformazione clandestina da lasciare ai posteri. Mentre i treni partivano per i campi, furono seppellite 60.000 pagine di documenti; terminata la guerra venne riportato alla luce il primo archivio, interrato nella cantina di un edificio raso al suolo. Negli anni ’50 fu scoperto un nuovo archivio e si pensa che un altro sia ancora seppellito.
Per impedire che fossero i nazisti a raccontare la loro storia, si iniziò a scrivere, a guardare e a descrivere, a raccogliere oggetti, a fermare nelle pagine il crescendo del terrore, di una vita quotidiana stravolta dagli stenti, della fame e della progressiva perdita di umanità; ma nei documenti c’è anche lo strenuo tentativo di mantenere vive le tradizioni, il canto, il teatro, la musica. Il progetto di produzione e raccolta della memoria divenne per molti un modo per non perdere sé stessi, per sopravvivere e per resistere all’annientamento che la concentrazione nel ghetto stava producendo.
Dal 1999 l’Archivio di Oyneg Shabes è stato inserito nel Registro della Memoria del Mondo dell’UNESCO.
Roberta Grossman si è ispirata al testo dello storico Samuel Kassow che in Who Will Write Our History, racconta la poco conosciuta storia dell’archivio, dei suoi ispiratori e autori. La forma utilizzata dalla regista per narrarne la complessità e le stratificazioni è la docufiction, scegliendo come filo conduttore dei narratori che interpretano le figure dello stesso Emanuel Ringelblum e di Rachel Auerbach: sopravvissuta alla distruzione del ghetto, intellettuale e critica d’arte, coinvolta nel progetto dell’archivio e mano d’opera per mense collettive che distribuivano zuppe agli affamati.
Attraverso i documenti sono raccontati gli anni che vanno dal ’40 al ’43, data della rivolta e della definitiva distruzione del ghetto per volontà Himmler. Progressivamente agli ebrei viene sottratto tutto, beni e diritti, lavoro e assistenza, rifornimento di viveri: la condanna a una vita in strada dei più deboli, la fame, la sporcizia e le malattie, il mercato nero, la depredazione da parte dei polacchi degli averi scambiati per un sacchetto di piselli o poche patate, il contrabbando. La storia del ghetto di Varsavia e dei suoi abitanti emerge con una tragica consapevolezze, “Nel ‘39 ci proteggemmo dalla verità, non volevamo vederla.”. Le immagini d’archivio ci restituiscono i cadaveri per strada, i corpi ischeletriti per la fame e consunti dalle malattie, i cadaveri ammassati sui carri per toglierli dalle vie, i bambini morenti e i rastrellamenti a opera della stessa polizia ebraica che aveva fatto un patto con i nazisti per avere salva la pelle in cambio di un numero fissato di deportati da mandare a Treblinka. Un inferno parallelo, anticipazione di quello che avverrà poi.
Chi scriverà la nostra storia è il racconto di una tappa di uno sterminio organizzato, di un omicidio di massa, che non è stato il primo della storia del ‘900 e che continua a non essere l’ultimo: le variabili sono le modalità, i numeri e quanto se ne sappia.
Per ritornare alle prime righe, la parola indifferenza deve esserci di monito, sempre, a ogni angolo di strada.
Titolo originale: Who Will Write Our History
Nazione: U.S.A.
Anno: 2018
Genere: Documentario
Durata: 95′
Regia: Roberta Grossman
Cast (voci originali): Joan Allen, Adrien Brody
Cast: Jowita Budnik, Piotr Glowacki, Karolina Gruszka, Jess Kellner, Wojciech Zielinski
Produzione: Katahdin Productions, Match&Spark, EC1 Lódz – Miasto Kultury, NDR/Arte
Distribuzione: Wanted
Data di uscita: 27 Gennaio 2019 (cinema)