Il 2018 non può non essere considerato un anno fondamentale per il cinema cinese, avendo potuto godere attraverso Cannes 71 di due lavori estremamente pesanti da parte di quelli che sono con tutta probabilità i registi più dotati e capaci di interpretare le trasformazioni nel tempo recente della nazione più grande del mondo. Ash is purest white è il primo della coppia, ma se abbiamo avuto l’opportunità di vedere l’opera di Zhangke nelle sale italiane lo stesso non possiamo augurarci per questo Dead souls, che con le sue otto ore abbondanti di durata travalica qualsiasi buonafede.

È un documentario fluviale che ci riporta dalle parti di Tie Xi Qu e Crude oil, facendo poi un passo oltre. L’approccio a Dead souls è reso ancora più complesso per via del passaggio da un’indagine di natura socio-economica alla ricostruzione del primo giro di boa della storia della Cina del XX secolo: il Da Yuejin, ovverosia quel “grande balzo in avanti” che, sul solco tracciato dall’abbandono della NEP e dall’attuazione della Pjatiletka da parte della Russia stalinista trent’anni prima, avrebbe dovuto trasformare il paese in una potenza industriale parallelamente all’abbandono di un’economia centrata sull’agricoltura e a un processo di tecnicizzazione che coinvolgesse tutta la società. A Wang Bing non interessa però ricostruire una cronaca del disastro dalle cui macerie sorgerà la Rivoluzione Culturale e con essa la Cina che conosciamo oggi, competitiva nello scontro per l’egemonia mondiale, ma il contraccolpo. Il progetto è stato riconosciuto come un fallimento sia dalla storiografia cinese che da quella estera, ma ha piantato il seme per la rigida politicizzazione onnipervasiva che sarà uno dei cardini della Cina dalla fine degli anni ’60 in poi.

Il soggetto di Dead souls è infatti l’eccidio politico iniziato di pari passo con l’iniziativa politica per scoraggiare il crescente malcontento sociale a seguito della mole di sacrifici richiesti e imprimere un’accelerazione decisa al processo di compattamento della nuova società comunista collettivizzata, è cioè la genesi dell’autoritarismo cinese. Le conseguenze, tra carestie e campi di rieducazione e/o concentramento, si stimano con decine di milioni di morti, ma il regista è capace di scavare ancora e individuare un punto ancora più profondo, ovvero la mancanza di riconoscimento della strage da parte del governo cinese anche nelle epoche successive, un’autentica infrastruttura negazionista è parte integrante dello scheletro della Cina ancor oggi. E Dead souls è dunque un titanico tentativo di restituzione del dolore e dell’umanità negata a quelle persone, una legittimazione di una parte di storia non ammessa che può, con un coraggiosissimo atto di cinema e d’arte, farsi realtà.

Il clima è quello del sospetto, tipico delle derive autoritarie al governo, una denuncia anonima o il minimo dubbio possono stroncare la vita di una persona e spedire la stessa per tutta la vita in un laogai: è un rastrellamento tale da ricordare le deportazioni naziste e che dà vita alla segregazione di una parte di umanità, tolta dal suo stesso contesto e gettata in un ambiente di totale terrore, unico caso in cui il livello di industrializzazione auspicato è stata raggiunto alla perfezione dando forma a una serie di fabbriche di pensiero e morte come le abbiamo conosciute nel momento più tragico dell’Occidente. Questo non è limitarsi a un sunto ma descrivere l’approccio di Wang Bing al film, semplice e lineare, retto da una miriade interminabile di interviste frontali che si snodano in un arco di circa dodici anni (dal 2005 al 2017) e che permettono agli intervistati, sopravvissuti o parenti, di riappropriarsi di un dolore che è stato messo fuori legge, di poter elaborare e raccontare la disumanizzazione della rimozione forzosa della memoria.

The ditch poteva essere un buon punto di partenza cui fare riferimento per prossimità tematica, ma in verità Dead souls assomiglia molto di più al recente gioiellino Mrs. Fang, in quanto al centro di tutto rimane la pena. Nel film del 2017 il nostro sondava la totale incapacità culturale di elaborazione del lutto da parte di una famiglia, l’incomunicabilità a livello affettivo che permeava la società della Cina rurale (e non solo) mentre qui opera l’operazione inversa, proponendosi di rendicontare non un dolore che c’è ma non si mostra ma uno che si palesa in tutti i modi interrottamente da cinquanta, sessanta anni ma non può esserci in quanto bandito, normativamente disinnescato.

La divisione in capitoli che affiancava le altre pellicole-fiume del regista si fa viva anche qui, dividendo Dead souls in due metà secondo un metro più o meno cronologico. L’occhio meccanico di Wang Bing va avanti e indietro nel corso delle interviste ma al montaggio la preferenza è stata quella di lasciare le testimonianze di questo decennio per ultime, nella seconda sezione, portando alla luce la privazione in quanto tale come se ne venisse proposta una ricostruzione storica; per via negationis il nostro partorisce un documento storicistico sulle conseguenze a un livello a metà fra culturale e sentimentale delle azioni del governo nell’ambito del “grande salto” dagli anni ’60 in poi. Pure i dispositivi e le tecniche si adattano alla scansione temporale, non soltanto in quanto risultati di riprese differenti con macchine differenti per ragioni di praticità nel corso degli anni, ma per essere momenti immanenti e avulsi rispetto agli altri analoghi. Questo elemento di discontinuità, assieme a una scelta relativamente semplicistica come può essere quella dell’ordine cronologico su vasta scala, permette di creare una fonte storica nella sua autenticità, cioè sceglie di tagliare correlazioni, parallelismi, qualunque tipo di associazione o affinità fra l’una e l’altra testimonianza per mettere tutto sullo stesso piano. È un’abolizione delle dinamiche strutturali che appesantisce ancora di più l’effetto del film, imprimendo a Dead souls un percorso ripetitivo e circolare in grado, pur con il rinculo di far sentire maggiormente le otto lunghissime ore di durata, di restituire, come un debito, la disperazione di chi non vi ha potuto dar voce per mezzo secolo in maniera totalizzante e piena.

Ma ci sono scene che colpiscono più di altre, uno dei primi sopravvissuti a comparire sullo schermo fa fatica in prima persona a elaborare il crimine subito e trova molto più comprensibile accettare di aver sbagliato senza sapere come e di aver “meritato” la rieducazione, e ancora più impressione fa quel professore che voleva ripassare Marx con i compagni di prigionia pur portandosi addosso l’etichetta di controrivoluzionario, per terminare infine con l’ultima intervista, ad esempio, della vedova che trova finalmente liberazione, come se lo sguardo altrui potesse confermale che il dolore che prova non è un’allucinazione ma è reale, il cinema di Wang Bing l’ha reso vero nel riconoscerlo.

Eccezion fatta per i cartelli che saltuariamente appaiono per riportare date, nomi o rare e preziose testimonianze scritte, questo flusso infinito senza soluzione di continuità viene interrotto soltanto due volte, due escursioni fuori dal mosaico di vecchi volti scavati che creano una sorta di architrave nel film, sono legate. L’analogia di queste due variazioni è data dalla natura ultima di quello che dovrebbe essere Dead souls, cioè un’epica cerimonia funebre, e infatti sono immagini di due funerali, il primo è ufficiale, con tutti i crismi seppur povero, mentre il secondo è molto più brutale, è una camminata silenziosa nel Deserto del Gobi con la mdp che s’impolvera nel terreno e per spasmi mostra mani che affondano in pochi centimetri di sabbia ed esumano ossa e resti umani di vario genere, in un lamento muto dinanzi a una delle più grandi fosse comuni del mondo, portando a termine quello scavo che era The ditch, ma ora c’è la sepoltura, forse può finire, può essere tutto vero.