Girato back-to-back con X (X: a sexy horror story in Italia), il prequel Pearl, segna la definitiva consacrazione di Ti West a regista dotato di una sua autorialità, ben oltre la dimensione da mestierante con cui aveva iniziato la carriera, e la maturazione del suo cinema nostalgico e citazionistico, sbocciato in una poetica tipicamente postmoderna.
X è uno slasher come non se ne vedevano da un po’, e non soltanto perché è effettivamente un film vecchio, infarcito di omaggi allo slasher degli anni ’70 e impostato sull’estetica di allora – dalla fotografia granulosa e colorata alle transizioni di montaggio -, ma perché fa respirare esattamente quell’atmosfera lì, non facendo nulla per rielaborare oltre gli stilemi da cui prende ispirazione, piuttosto plagiando apertamente. Questo era parte della sua forza e l’unica sua debolezza, mentre Pearl, pur non raggiungendo lo stesso livello per ampiezza di contenuti, fa un passo oltre ed emerge come un pastiche massimalista fra generi e stili tramite il riciclo di tutto ciò che con X non era stato digerito. Lo fa fornendo un passato alla vecchia repressa e omicida Pearl, antagonista del film precedente, la cui gioventù dovrebbe fare luce sulla natura del personaggio, sempre interpretato da Mia Goth – qui anche co-sceneggiatrice e responsabile di un’interpretazione che fornisce una marcia in più al film.
Non che interessi a qualcuno sapere perché l’antagonista di un sottogenere cinematografico imperniato sui massacri compia effettivamente suddetti massacri, a dire il vero; anzi, non interessa nemmeno troppo a Ti West che non fornisce una chiave univoca, visto che non è chiaro se Pearl sia già così da sempre e i conflitti con la madre scaturiscano dal timore verso questa suo lato o se, viceversa, sia stato il contesto familiare a creare il mostro geriatrico che abbiamo visto. Il senso di Pearl giace tutto nella possibilità da parte di West di aggiungere un tassello fondamentale al suo modo di girare, facendone un manifesto programmatico o una dichiarazione di intenti.
Pearl è solo una ragazza di campagna che sogna una vita migliore “like in the pictures“, soffocata dalla madre leopardiana, le attenzioni dovute al padre ridotto a un vegetale dalla spagnola, e il lavoro nella fattoria mentre aspetta che il marito Howard torni dal fronte. Vorrebbe fuggire attraverso il cinema esattamente come Maxine (l’altro personaggio interpretato da Mia Goth), anche se magari non quel tipo di cinema. E invece la sua frustrazione emerge ogni volta che la realtà non combacia con le sue aspettative e sogni. A quel punto esce fuori l’altro lato della sua personalità – quello che ama i forconi e le accette. Pearl cerca di scappare dalla campagna in cui è cresciuta esattamente come il film in cui è protagonista cerca di emanciparsi dal genere horror e diventare un potenziale musical allegro e spensierato. E finché la protagonista è felice anche il tono della pellicola le dà ragione: la regia asseconda i suoi movimenti danzanti, l’immagine è patinata, c’è posto per effetti speciali e coreografie e una colonna sonora insistente. Ma la realtà è un’altra cosa e quando questa chiama il registro passa subito ai classici dell’orrore che tanto piacciono a West e il technicolor viene valorizzato al suo massimo. E la piccola Pearl deve fare il massimo con quello che ha, non tanto quello che vuole: horror = accettazione.
X aveva qualcosa in più in termini di contenuti, essendo di fatto anche una riflessione più complessa sull’immagine e sul libertinaggio capace di ragionare sulla riproducibilità del digitale e la corrispondenza fra pornografia e violenza, tracciando un percorso dall’emancipazione degli anni ’70 al presente. Pearl è invece rivolto al passato e non presenta nessun tipo di innesco per un discorso su tematiche simili, ma da un lato aggiunge vi qualcosa in termini di osservazioni su repressione e sublimazione degli istinti, mentre dall’altro, come già accennato, completa il manifesto linguistico di Ti West, ora sbocciato. Sbocciato magari un po’ tardi, visto che Pearl si prende parecchio tempo per iniziare davvero – facendolo però con la mirabile scena del litigio con la madre a tavola nella notte di pioggia: un perfetto crescendo di tensione che alterna ribellione e remissività, culminando nel primo omicidio della protagonista, in una sequenza che trasuda depalmità. E una volta che prende l’abbrivio non si ferma più, fino allo stupendo prefinale in cui Mia Goth tira fuori un assolo impressionante confessando le inquietudini di Pearl e il suo senso di vuoto, prendendosi il film.
Pearl è quindi una sorta di mappa per orientarsi nel cinema di Ti West, soprattutto di quello che verrà, che funge da compendio per X, rispetto al quale rimane comunque un passo indietro, e da epitome linguistica per ogni considerazione, filmica o di ogni altro tipo, che il regista potrà mai fare sul significato del genere horror. Le impurità sono ancora lì sotto gli occhi di tutti, le esagerazioni nei tributi sono come degli “ehm” in un’arringa ancora balbettante in alcuni punti che necessità di coprire ancora qualche indecisione dietro formule precostruite, ma la qualità del dittico non può essere emessa in discussione e, soprattutto, segna l’entrata in scena di un autore vero di nuova generazione nel panorama horror. Jordan Peele sarà contento di avere un Sancio Panza.