Secondo horror a episodi di questa 24esima edizione della kermesse udinese, Tales from the Occult riunisce nello stesso contenitore l’instancabile Fruit Chan – avevamo visto il restauro del suo immortale Made in Hong Kong (1997) qui al FEFF nel 2017, per il ventennale dell’handover – , il talento emergente Fung Chi-Keung – memorabile il suo esordio The Bounty (2012) con Chapman To – e l’esordiente assoluto Wesley Hoi, in un’opera a sei mani dove ogni singolo segmento reca ben visibili stile e influenze del proprio autore, per quanto le trovate comiche e il trattamento del bersaglio polemico lascino parecchio a desiderare – inaspettatamente, soprattutto per il più navigato del fantastico trio.
In The Chink (Wesley Hoi), la popstar Yoyi Koo – Cherry Ngan –, appena trasferitasi nel suo nuovo appartamento, è perseguitata dal ricordo di un cadavere rinvenuto per strada al tempo delle medie, al quale si sovrappone la minaccia di uno stalker che sembra abbia accesso alla sua abitazione. In Dead Mall (Fruit Chan), una streamer e la sua sorella sfigurata cercano di mettere all’angolo il guru della finanza Wilson Leung – Jerry Lamb –, colpevole di innumerevoli truffe e dell’incendio che, anni addietro, distrusse il centro commerciale dove ora tutti e tre si sono ritrovati per un bizzarro evento promozionale. In The Tenement (Fung), gli inquilini di un palazzo di periferia dovranno confrontarsi con il paranormale e scacciare uno spettro dell’acqua che infesta il loro vano scala, salvo poi scoprire che la chiave del mistero è ben più razionale – e inquietante.
Come nell’ultima fatica di Matti presentata qualche giorno fa, anche Tales from the Occult mostra evidente la volontà di confrontarsi con il trauma del periodo pandemico, almeno per quanto concerne i primi due episodi. Tuttavia, rispetto al suddetto Rabid, il trittico presenta delle evidenti debolezze nella gestione delle tempistiche, nonché nella particolare concezione di umorismo sposata, il cui abbinamento al genere horror, per quanto abbia dato spesso esito a matrimoni felici – il caso del pluripremiato One Cut of the Dead (2017) di Ueda ne è un esempio –, necessita di alcune cautele. Certo, non si può ignorare il fatto che Rabid, al di là delle diverse autrici che si sono affiancate a Michiko Yamamoto, benefici di una mente registica unitaria, ma non è questo il punto. Al contrario, i diversi toni adottati da ciascun autore – Chan con il gusto per il farsesco e Fung con quello per l’assurdo, mentre Hoi si muove più nel recinto delle convenzioni di genere – costituiscono uno dei meriti del film, in quanto opera genuinamente collettanea proprio nell’ammettere il cortocircuito stilistico nel passare da un episodio all’altro.
Semmai, è nella difficoltà a passare da un registro all’altro all’interno dei singoli episodi che si scorge la difficoltà dei due autori più navigati: di fatto, né Dead Mall né The Tenement riescono a mantenere lo stato di tensione e cupezza necessario a instillare nello spettatore la paura, il che si rende tuttavia indispensabile nel momento in cui si vuole innestare una gag in un genere a questa refrattario. In altre parole, i due episodi citati non preparano il terreno per l’improvviso cambio di tono, ma sono dall’inizio alla fine già improntati al medesimo andazzo faceto, il che impedisce di apprezzarne gli aspetti tipicamente horror – il volto sfigurato della gemella di Dead Mall, le mutazioni dello spirito di The Tenement.
Tuttavia, se da un lato la critica che Fruit Chan muove al mondo degli streamer – e dei social media più in generale – non appare particolarmente sottile, dall’altro Fung riesce in parte a riscattare il proprio segmento grazie al sottotesto politico, relativo alla tragica situazione del mercato immobiliare e della disponibilità di alloggi – già al centro dell’ultima fatica solista di Fruit Chan Coffin Homes (2021) –, mentre è l’esordiente Hoi a firmare il contributo più convincente, una storia di stalking in odore di Perfect Blue (1997) che, tra sdoppiamenti e crisi di identità, coglie con attenzione la complessità della psiche femminile e dei fenomeni di massa.
Insomma, anche se non annoiato, l’enfant terrible del cinema di HK – nel frattempo arrivato a spegnere 63 candeline – sembra comunque un po’ stanco, e anche se il supporto di validi compagni di viaggio può aiutare ad attutire la caduta, ciò non basta a nascondere una incipiente crisi di creatività – con tutta probabilità circoscritta e momentanea.