“Happy-Go-Lucky” di Mike Leigh

Leigh in stato di grazia umana e creativa

Concorso
Ogni giorno Poppy (Pauline) intraprende la sua semplice e grande missione con non-chalance e naturalezza: portare un sorriso a chi le sta intorno. Che siano le sue amiche del cuore o incontri occasionali, non si può fare a meno di farsi prendere dalla sua sana e contagiosa pazzia. Ma non con tutti è così facile suscitare una risata.

Mike Leigh è senz’altro uno dei migliori e più continui rappresentanti del New British Cinema, e la sua carriera costellata di premi internazionali testimonia di una ricerca umana che lungi dall’appiattirsi sulle tematiche sociali e politiche si fa invece indagine antropologica dell’animo umano in crisi d’identità. Per capirci, Leigh non è Ken Loach, ma forse con film quali Naked (1993) coglie il disagio urbano in modo più urticante e meno politicizzato, così da costringere lo spettatore a porsi delle domande urgenti sulla perseguibilità di un’altra vita possibile nell’agire umano. Dopo aver volto lo sguardo indietro con un film a tema e in costume che gli è valso il Leone d’Oro a Venezia (Il segreto di Vera Drake, 2004), il sessantaquattrenne di Manchester sembra volersi (e volerci) distrarre con un divertissement scatenato che ruota come una giostra attorno ad una delle figure meglio riuscite della sua già lunga carriera, la snodata e ridanciana Poppy interpretata con una verve clamorosa da Sally Hawkins.

Diciamolo subito, prima ancora di abbozzare un’analisi tematica: la protagonista di questa sorta di montagne russe colorate e scanzonate (e lo stesso titolo, traducibile come “spensierata”, ricorda un po’ il termine inglese per “giostra”, Merry-Go-Round) è a nostro avviso clamorosamente ricalcata non sui personaggi, bensì sulla persona stessa di Roberto Benigni. Abbiamo naturalmente in mente il folletto predicatore di amore universale e abbracciatore forsennato degli ultimi dieci anni, non certo il coprolalico Benigni degli inizi o tantomeno il declamatore dantesco: Poppy è una forza della natura che ricorda nell’approccio al prossimo, nel sorriso sgangherato e a volte immotivato, nella postura e, a tratti in modo impressionante, nell’andatura a ciondoloni, il Premio Oscar toscano. Che sia questa una voluta somiglianza esteriore o una buffa casualità, questa giovane insegnante che non si lamenta mai, non nutre rancori personali, offre una via di fuga nel sorriso anche al passante occasionale, è una figura quasi francescana, oseremmo dire, nell’accettazione (laica, contemporanea, per carità) della bellezza del mondo, o semplicemente di ciò che il mondo le può offrire.
Leigh compie un miracolo di leggerezza, soprattutto riuscendo a fugare da subito ogni possibile dubbio sull’immaturità psichica o mentale della sua protagonista: Poppy non ride come un ebete perché è una minus habens o perché è incosciente delle brutture dell’universo, Poppy non è un alieno che si crea un mondo parallelo o si barrica dietro un velo di illusioni. La maestrina dinoccolata e provocatrice è un essere umano straordinario, forse irreale e rara nella sua carica di energia e di propositività (che in lei, attenzione, non è superficiale ottimismo da quattro soldi), ma non del tutto impossibile. La sua naturale, non pensata, immediata impostazione esistenziale le permette di sublimare il male, di non pre-occuparsi, di non occuparsi eccessivamente in anticipo di chi sa quali catastrofi potrebbero succedere; le permette di star contenta di ciò che ha, il che all’inizio del film vuol dire un lavoretto non troppo ben pagato, un appartamento in condivisione ed una vita da single trentenne che al massimo si può permettere una bici.

Leigh è anche l’autore della sceneggiatura, e sarebbe interessante rivedere il film a distanza di tempo o interrogare l’autore se alla base del suo personaggio veda un processo psicologico e di maturazione particolarmente favorevole, o un “dono divino” le cui motivazioni non vanno necessariamente cercate in un’infanzia felice. In altre parole, si potrebbe domandare al regista se per lui Poppy è un frutto insolito ma possibile dello sviluppo sociale contemporaneo, il che dimostrerebbe in fondo la sostanziale ricuperabilità del nostro mondo, o un’“eccezione genetica” da prendere per quello che è: cioè un modello inimitabile in quanto in fondo non appartenente a questa terra.
In parte troviamo la risposta in alcuni degli episodi più delicati della sceneggiatura, che vanno analizzati con particolare attenzione ai fini di una valutazione non approssimativa del tutto: la scatenata insegnante è in realtà ben ancorata al mondo in cui vive, non ha la testa fra le nuvole, non sottovaluta la tragedia dell’esistenza quotidiana, in quanto dimostra una sensibilità speciale per il “male di vivere” che incontra di tanto in tanto. Il personaggio dell’istruttore di guida burbero, reazionario ed incazzato con il mondo (Scott, un impressionante Eddie Marsan) è quasi l’antitesi per antonomasia di Poppy, con il suo groviglio di odi repressi e ruggini accumulate, e le conversazioni fra i due alla guida della macchinetta per le strade della città sono uno scontro di mondi, prima ancora che il confronto di due Weltanschauung.

La vittima loachiana di una working class sfruttata che si reinventa illusoriamente “padrone di se stesso” con la sua piccola autoscuola, il grumo umano di infelicità e invidia pronta ad esplodere in maniera vulcanica, è la dimostrazione della necessità di persone come Poppy, ma anche un banco di prova durissimo per la stessa, che dimostra quanto Leigh non intenda dipingere una favola autosoddisfatta sul migliore dei mondi possibili. In definitiva, l’approccio contagioso e scardinante della maestrina forse non è sconfitto totalmente nello scontro con l’istruttore Scott, questo “uomo più triste del mondo”, ma per lo meno si arena, si incaglia negli scogli frastagliati di una personalità affetta da tutte la malattie contemporanee dell’Occidente, dall’insoddisfazione lavorativa alla solitudine allo stress legato alla lotta per la sopravvivenza. Poppy deve arrendersi non di fronte alla impossibilità del compito, bensì davanti ad una volontà che si chiude in se stessa (Scott non vuole essere aiutato, e Poppy non può violentarne la libertà).

Sia gli ultimi dialoghi fra i due (soprattutto quello drammatico finale) che l’altro tema problematico del film (l’alunno violento a scuola perché a sua volta maltrattato nell’ambiente domestico) dimostrano la profondità caratteriale (e con ciò intendiamo anche la profondità “di scrittura” del character) di questa personcina magica uscita dalla penna di Mike Leigh. Se ci fossero dubbi sulla qualità del lavoro poi, rammentiamo che la stessa penna ha sfoderato in questo film deliziosi scambi di battute insinuantisi nei piccoli spazi di silenzio con potenza comica esplosiva (Poppy è latrice di piccoli e fulminei commenti smitizzanti all’interno dei dialoghi della “gente seria”), nonché alcune figure e sequenze secondarie di grande valore comico, come l’insegnante spagnola di flamenco e le correlate lezioni di ballo.
Un film, in definitiva, che è stato scritto, pensato e girato in stato di pura grazia umana e creativa.
Se non fosse per un finale forse non troppo cercato (ma Leigh dà tantissimo nelle due ore precedenti, ed anche il tono in minore, irrisolto dell’ultima sequenza ha il suo fascino) diremmo un capolavoro.

Regia di Mike Leigh
Con Sally Hawkins, Alexis Zegerman, Eddie Marsan
Genere Drammatico
Produzione Gran Bretagna, 2007
Durata 118 minuti circa.