Venezia 65 – Concorso
La coppia Aronofsky-Rourke riceve nella commozione generale il Leone d’oro per il sincero “The Wrestler”. Coppa volpi alla francese Dominique Blanc. L’Italia porta a casa due premi, uno grazie all’interpretazione di Silvio Orlando ne “Il papà di Giovanna”.
Ci sono mostre del cinema più o meno discusse, controverse, capaci di accendere gli entusiasmi o le delusioni degli spettatori. Nel generale senso di insoddisfazione del pubblico del Lido, quasi unanime nell’assegnare un responso mediamente negativo alla selezione dei film in [concorso->+-Venezia-65-Concorso-+.html?id_secteur=2], sembra almeno che il verdetto della giuria metta tutti d’accordo. The Wrestler, opera di un autore coraggioso, talentuoso, promettente come Aronofsky, riceve il Leone d’oro nella commozione generale, dovuta soprattutto alla toccante interpretazione di Mickey Rourke su cui è costruito e fondato l’intero film. Questo non sminuisce il regista americano, che anzi sembra ben felice di poter condividere questo premio con il gigante buono, l’indistruttibile (o meglio, distrutto e rigenerato) Rourke, quasi co-autore della pellicola se si considera che, cosa mai vista, è lui a ritirare il premio e ringraziare il pubblico assieme al regista. Il Leono d’oro, del resto, incorona un film come opera complessiva non di un solo regista, ma vincente in ogni aspetto, e l’attore americano è indubbiamente il pilastro attorno al quale si fonda l’intera pellicola.
Rourke sembra quasi voler giocare il ruolo del duro, del ribelle, non fa economia di espressioni colorite e mastica il sigaro davanti alle telecamere; poi confessa di aver portato la sua cagnolina con sé perché non le resta molto da vivere e desidera passare il più tempo possibile con lei: come si fa a non provare tenerezza per un uomo, prima che un attore, tanto singolare? La giuria, ovviamente, non ha resistito.
Festival che premia anche il cinema italiano, con la bellissima Coppa Volpi per Silvio Orlando, straordinario interprete che dopo molti anni riesce ancora a stupire ed emozionare il pubblico con la sua prova ne Il papà di Giovanna di Pupi Avati. Gli si perdona un po’ di confusione: “Grazie a Pupi, che ci guarda dall’alto dei cieli” è la frase conclusiva del suo discorso, mentre Pupi, dall’alto del suo divano a Bologna, avrà probabilmente cercato l’oggetto metallico a lui più vicno per assicurarsi un’esistenza ancora lunga e felice. Emoziona anche dal vivo, Silvio Orlando, perché commuove vedere un attore con la sua fama ed esperienza agitarsi come un bambino totalmente impreparato, alzare quella coppa un po’ maldestramente come uno scolaretto che festeggia il suo primo trofeo di calcio.
La vittoria di Silvio, però, si tinge di polemica. Con un discorso pronunciato alla fine della cerimonia, Wenders si dimostra abbastanza contrariato nel non poter assegnare al colosso statunitense la Coppa Volpi alla miglior interpretazione, ostacolo dovuto ad un regolamento più volte contestato che impedisce di assegnare due premi principali alla stessa opera, e propone un cambiamento per le edizioni a venire. Chiarisce poi con la stampa di non voler in alcun modo sminuire l’interpretazione di Silvio Orlando, concetto ribadito anche da Valeria Golino che, in veste di giurata, conferma: “Non c’è stato nessun litigio sul premio per Silvio”. Il dubbio, però, rimane, ma non sembra adombrare un riconoscimento che tutti hanno accolto come meritato e dovuto, persino lo stesso Wenders.
Unanime anche il consenso per la miglior interprete femminile, la acuta e sofisticata Dominique Blanc de L’autre, voce gentile e pacata nello spiegare come quella martellata in testa, una delle scene più discusse al festival, fosse vera – si spera con una buona dose d’ironia. Un ruolo difficile il suo, delicato, cerebrale, reso con grande eleganza e che ha prevalso su interpretazioni forse più di impatto, ma anche meno sottili nel disegnare il personaggio.
Il leone d’argento premia la regia di Aleksey German Jr., privilegando uno stile formale e forse eccessivamente accademico in un festival che comunque ha presentato ben poca innovazione e sorprese sul piano autoriale; al film va anche l’Osella per la miglior fotografia (firmata Alisher Khamidhodjaev e Maxim Drozdov), giocata su bellissimi toni freddi che ben restituiscono lo spirito che permea l’intera storia. Ed ecco arrivare subito in soccorso Il Leone Speciale per la complessità dell’opera, che con un colpo d’ali e di coda salva capra e cavoli e riconosce il valore artistico per lo meno dell’intera carriera di Werner Schroeter, senza fortunatamente porre l’accento sul molto discutibile Nuit de chien, presentato quest’anno in concorso.
Esce vincitore anche il film africano in concorso, Teza di Haile Gerima, che riceve il Premio Speciale della Giuria e con l’Osella per la migliore sceneggiatura, opera dello stesso regista e a dir la verità non certo la migliore vista in questo concorso. Gerima, con una prospettiva storica superata da decenni, rivanga il passato coloniale dell’Italia e spiega che il suo rapporto con il nostro paese non può prescindere dal pensare che suo padre lo ha combattutto, deteriorando il messaggio di pace del suo film e rivelando una profondità intellettuale e di pensiero di gran lunga minore a quella che il suo film aveva prospettato.
Guardando al futuro di nuovi autori ed interpreti, la giuria consegna il Premio Marcello Mastroianni, volto a premiare giovani attori emergenti (e che appena cinque anni or sono aveva incoronato una timida Scarlett Johansson) a Jennifer Lawrence, convincente attrice di The Burning Plain che supera così le ben più rodate colleghe del cast Charlize Theron e Kim Basinger. Ma la vera sorpresa è per Pranzo di Ferragosto, film italiano indipendente realizzato con pochissimi mezzi e con irresistibili ottantenni non professioniste, vincitore del Premio “Luigi de Laurentiis” per la Miglior Opera Prima: Kechiche, presidente della Giuria Opera Prima, si dimostra entusiasta, innamorato del film, della sua freschezza e giovinezza, nonostante l’età media degli interpreti e dello stesso regista, sceneggiatore di Gomorra e non certo ventenne. Bellissimo premio per un film italiano di cui sentiremo certamente parlare.
Un festival all’insegna delle emozioni, dei grandi ritorni, che di fronte a sterili intellettualismi ha scelto la via della purezza, della semplicità, della commozione, rivelando il suo lato più umano. Wenders ne è la prova vivente, presidente di una straordinaria umanità ed autenticità, capace di sostenere con anima e corpo un film come The Wrestler non per chissà quale ragione metalinguistica, ma semplicemente perché lì era riuscito a piangere, a tremare, a riscoprire il vero significato del cinema. “Non farò mai più parte di una giuria” confessa alla stampa il regista tedesco, stremato, con una lacrima che spunta a testimoniare quanto appassionatamente e seriamente lui viva il suo lavoro, quanto sincero, profondo ed autentico sia l’amore per la sua arte, la stessa passione che ha spinto tutti al Lido, dallo spettatore seduto in ultima fila ai mebri della giuria, a scontrarsi, confrontarsi, parlare in nome di quello schermo che ancora riesce ad emozionarci, a stupirci, ad insegnarci qualcosa di nuovo.
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