Il secondo lungometraggio di Ahmad Bahrami racconta la storia di Lotfolla, un uomo di 40 anni, che lavora come supervisore in una fabbrica che produce mattoni nel vecchio modo tradizionale.

Il suo compito è quello di intermediario tra il “capo” e i lavoratori.
Un giorno il proprietario della fabbrica riunisce tutti i lavoratori (famiglie di etnie diverse), per avvisarli che il cemento sta prendendo il posto dei mattoni, il costo del petrolio è aumentato e ha debiti con la banca. Questa frase viene ripetuta ogni volta che il regista introduce la vita di uno degli abitanti di questa fabbrica/villaggio. 

Lotfolla, uomo solo, una volta compreso quale sarà il futuro, vorrebbe andare via, in un altro villaggio, portando con sè Sarvar, la donna di cui è da tempo innamorato.

“Mio padre ha lavorato in fabbrica ed è andato in pensione dopo trent’anni di fatiche. Il mio film Dashte Khamoush è un omaggio a mio padre e a tutti coloro che, in ogni parte del mondo, lavorano duramente. Quei lavoratori senza i quali la civiltà degli uomini non avrebbe raggiunto l’attuale livello di progresso”.

C’è qualcosa di biblico nella descrizione di questi esseri umani, della loro vita, del loro duro lavoro, nella tensione drammatica che cresce. Dashte Khamoush (The Wasteland, La Terra Desolata) è un film dalla lucida malinconia di fondo, dal linguaggio tanto asciutto quanto duro, dalla struttura solida e un’intensità ricca di suggestione. Elementi che ne fanno dimenticare un po’ la meccanicità narrativa.
Notevole il bianco e nero di Masoud Amini Tirani.