Siamo a Nal’chik, nel sud della Federazione Russa: “provincia” è dir poco. I servizi e le comodità sono molto discutibili, e se ci si mette anche Tonja (autista di autobus poco disciplinata) a fare i capricci, è difficile che si arrivi a una qualche destinazione. In questo vicolo cieco di periferia nella vita già disastrata della donna interviene poi un fulmine a ciel sereno: il figlio, le dicono, è morto in Siria, nell’ambito di un ben poco chiaro incarico militare. Finché, un bel giorno, egli ritorna…
Vladimir Bitokov è uno degli allievi che Aleksandr Sokurov ha lanciato con la sua scuola situata nel profondo sud della Federazione Russa, in Kabardino-Balkaria (Kantemir Balagov, Kira Kovalenko e Aleksandr Zolotuchin sono gli altri più noti), e proprio nel capoluogo Nal’cik (già visto in Tesnota-Closeness) egli ambienta questa convulsa e misteriosa storia familiare. Aveva esordito qualche anno fa con Deep Rivers, storia di boscaioli del Caucaso che in realtà ci aveva convinto solo a metà. Riguadagnando la dimensione cittadina, seppur provinciale e periferica, il giovane autore riesce a concentrare maggiormente i vettori e le frecce avvelenate di odi e risentimenti familiari con cui aveva imbastito anche il suo esordio, ma questa volta ha dalla sua parte un cast più affiatato e un soggetto di maggiore respiro. Egli riesce infatti a far interagire in modo esplosivo ma funzionale diverse generazioni attoriali della grande tradizione russa: si prenda la a noi ben nota Ksenija Rappoport, spesso utilizzata anche da autori italiani, e soprattutto quello che sembra essere la star giovane più esuberante del nuovo cinema russo, Jurij Borisov, che negli ultimi tempi non ha sbagliato un colpo e anche qui prende di petto la scena con una interpretazione fisica e carismatica.
Borisov interpreta un personaggio enigmatico, cui conferisce i giusti tratti sociologici da soldato russo di periferia cresciuto in un contesto difficile e abituato a farsi largo a spallate. Egli dichiara di essere tornato da una missione quasi segreta in Siria come “contractor”, ma nasce un dilemma senza facili risposte, in quanto alla madre Tonja (la Rappoport) avevano dichiarato ufficialmente che il figlio era esploso su una mina durante una missione segreta in Siria. A funerale già fatto e dopo aver superato la traumatica sorpresa, la donna aveva iniziato una sua campagna personale per ottenere notizie e certezze sulla fine del figlio, andando a pestare i piedi di poco solerti funzionari, uffici polizieschi ed amministrazioni comunali ben poco propensi a prestare attenzione all’ennesima madre di soldato disperso in uno dei tanti conflitti in cui la Russia è stata recentemente impegnata. Il ritorno del figlio è dunque più una poco credibile maledizione che un motivo di gioia, anche perché con il tempo egli sembra essere mutato in modo irriconoscibile…
Quella che sarebbe potuta essere una uggiosa ricostruzione di un dramma sociale individuale (quello delle madri abbandonate dai mariti e poi dallo Stato, che si vedono recapitare una cartolina e un “premio” in denaro per aver perso un figlio in guerra) nelle mani di Bitokov si trasforma in una esplosione di rimorsi, odi atavici e tentativi di rivalsa che ci trascina quasi senza pause in un vortice di fisicità spudorata: Tonja è una forza della natura, abituata a fare da sé, visto che è circondata da uomini inetti o ingannatori, il (forse) figlio redivivo ha imparato al fronte ad usare testa mani e strumenti poco ortodossi per farsi spazio in un mondo che non glielo concede, ma a completare il quadro di un “campo di battaglia” domestico ci sono anche violenze e aggressività meno fisiche, più endemiche. La vicenda familiare è infatti incastrata in un affare di corruzione e business di mini-oligarchi e signorotti di periferia che non vedono l’ora di spiccare il volo verso Mosca, dove finalmente le loro ruberie potrebbero assumere dimensioni più cospicue.
Vero è che le due linee narrative (il ritorno del figlio e le trame affaristiche dei businessmen di periferia) non sempre si amalgamano bene, tanto che i tentativi carrieristici dei giovani uomini d’affari del luogo sembrano più che altro servire a creare un sottofondo sociale di cornice, che aiuti ad ironizzare salacemente sulla politica di corruzione del paese, ma ciò che spicca e travolge lo spettatore è la vorticosa lotta ancestrale fra familiari che “non si riconoscono”, non rispettano più le proprie funzioni. Il dubbio che quel giovane sia un impostore non ci lascia mai, il sesto senso materno di Tonja avverte subito il possibile inghippo, e da questa incertezza al limite dell’assurdo e del miracoloso (abbiamo davanti un morto che resuscita, un sosia, un vero e proprio imbroglione?) prende il via una voragine di interrogativi su quanto sia forte il senso materno, a quali paradossi l’istinto di una donna ribelle possa portare: è meglio accettare un figlio forse trasformato dalla guerra, ma vivo e vegeto, o continuare una battaglia contro i mulini a vento della sorda burocrazia provinciale per farsi magari restituire i resti di un corpo sepolto nel deserto siriano?
Quello che il coraggioso Bitokov ci offre è dunque un quadro molto critico della provincia russa, in particolare di quell’estremo confine dell’“Impero” da cui egli proviene, dove corruzione, echi distorti del potere centrale, disinteresse diffuso per i bisogni della popolazione, servizi ai minimi storici e poche chances di fuga lasciano solo agli spiriti ribelli e alle anime più forti una chance si sopravvivenza. Lo fa riuscendo anche ad istillare dubbi esistenziali sull’alta missione della maternità, e sui complessi codici e meccanismi di funzionamento della cellula familiare, motivo per cui non possiamo che sperare che questa ottima, solida opera seconda conquisti una qualche visibilità anche da noi in Italia.