68esima Berlinale, arriva fuori concorso un film inserito nel programma all’ultimo momento: si tratta di Unsane di Steven Soderbergh, l’ultima opera di un regista che a momenti ha fatto di più da quando ha annunciato il ritiro che nel corso della carriera “ufficiale”. In verità in quel proclama c’era più provocazione che altro, esattamente come in Unsane è la volontà di aggirare il sistema a muovere i pezzi, relegando narrazione e messa in scena in secondo piano.
In primo piano c’è sempre invece Sawyer Valentini, una donna in carriera interpretata da Claire Foy che si affida a un istituto per 24 ore per un aiuto psicologico, specie nell’ambito relazionale, nel quale ha difficoltà a causa di un passato tormentato e di uno stalker che non l’ha dimenticata. La clinica però funziona diversamente, speculando sui pazienti per truffare le assicurazioni, e Sawyer si ritrova bloccata lì dentro, con la situazione che si complica quando l’ossessionato David si farà assumere in loco per piegarla portandola davvero sull’orlo della pazzia.
Siamo di fronte a meccanismi ben oliati per quanto riguarda il genere, non c’è nessuna rivoluzione in atto, piuttosto tanti spunti che rimangono però male amalgamati. A partire soprattutto dal mezzo registico, poi, perché Soderbergh decide di utilizzare un iPhone, scimmiottando il cinema indie senza però mai restituirne le caretteristiche di ripresa. Soderbergh dà l’impressione di usare lo smartphone come fosse una normale cinepresa, non riesce a sfruttare le caratteristiche in fase limitativa che un simile approccio offre. Non siamo dalle parti di Tangerine, per dire, che faceva della povertà delle dinamiche registiche, della staticità forzata un punto di forza, ma di fronte a un (pur ben gestito) manierismo che si fa solo che extra-cinematografico nell’affermare il desiderio di aggirare Hollywood rimanendo però nella sua cerchia di riferimento. Non si tratta affatto di sperimentalismo, anche se vuole sembrarlo, quanto piuttosto di un divertissement polemico che strizza l’occhio a un cinema a cui il regista s’è spesso avvicinato ma non ha mai abbracciato in toto. Non che non si noti una differenza nel lato tecnico, ovviamente, ma le scelte registiche di Soderbergh stridono con l’atmosfera generale, dando l’impressione di un autore che vuole tenere il piede in due scarpe.
Ecco quindi che la claustrofobia, l’impotenza dinanzi alla violenza legittimata, o la paura dell’incomprensione generale non hanno il ritorno che potrebbero avere, con un dittico realtà/illusione paranoica che non decolla mai: non c’è assolutamente spaesamento in Unsane, anzi rimane rigorosamente quadrato per tutta la durata, più schiacciato su di uno schema christieiano che a, ad esempio, un The ward. Gli eventi e le sottotrame invece si sovrappongono senza coagularsi, dando l’impressione di sterile deriva, almeno per la prima parte del film. Ora la satira politica, con la truffa legalizzata dell’istituto che inferisce le storture del sistema sanitario americano, ora un excursus sul rapporto tra canali social e realtà, cioè avatar e prima persona e relativi paradossi, ora l’omaggio lineare al cinema di serie B. Solo nella seconda metà si iniziano a vedere sprazzi del vero Soderbergh, come una gestione decisamente arrembante nello scontro fra Sawyer e lo stalker, in una gara di violenza psicologica e fisica più ritmata. Da ricordare anche la scena più truce ed elegante del film, con il cameo di Matt Damon in qualità di esperto di “fuga da internet” che fa il paio con la prigionia dell’isolamento, con quella fotografia che vira sul blu (permanendo fino alla fine del film, cioè la conclusione agrodolce) scegliendo di virare verso l’asetticità proprio nel momento in cui si esce dalla clinica.
Ciò che dispensa la vera garra che tiene a galla il film è l’interpretazione centratissima di Claire Foy, che segue i picchi e le fasi di rallentamento dei film con dei tempi perfetti, dando risalto alla caratteristica principale del personaggio scritto per lei, esprimendo arroganza e strafottenza in tutti i modi possibili. Un talento non comune i cui anni d’esperienza e ruoli si possono contare sulla dita, ma su cui vale la pena sperare, sempre che non rimanga invischiata nel mondo hollywoodiano dopo una parte da coprotagonista nel nuovo film di Chazelle e nell’ennesimo remake di Uomini che odiano le donne, nel ruolo che fu di Rooney Mara e che insegnò come un’interpretazione di un’attrice di buon livello può salvare un film mediocre, quantomeno in una situazione in cui il regista è così vincolato dalla produzione da non poter avere piena presa sul set. Soderbergh con Unsane sta appunto sulla falsariga di quel tipo di romanzo scandinavo, cioè puerile e pigro, buono solo per un audience di scarsa esperienza e/o qualità. Unsane rimane un declinazione ben confezionata e compatta, ma anche per coloro i quali stravedono per Soderbergh e per il suo eclettismo, la sua capacità di spaziare tra cinema d’autore e di genere, si rivela forse una mezza delusione.