La lavagna di House offre una visualizzazione rozza ma efficace del modello agente della semeiotica medica, ed è al contempo il centro d’attrazione teatralizzato dei conflitti di personalità nell’équipe del dottore, dei giochi di potere, delle flottazioni di competenze che passano rapidamente di mano in mano assieme ad un pennarello (come si vede nell’episodio 1×9, in cui House ed il suo discepolo più promettente, il dottor Taylor Eric Foreman, entrano in conflitto. Il personaggio di House si nutre di una certa aura di trasgressione cosa che lo rende, in un qualche modo, istintivamente simpatico (a che servono, altrimenti, cinquant’anni di Hollywood, ed una vita da spettatori?).
L’anticonformista ribelle è sempre per l’homo spectator, quasi per reazione chimico-fisica, l’avversarsio dell’autorità costituita. House non tiene la mano al paziente, non gli indora la pillola e non lo consola. Ma è di certo nelle sue competenti mani che vorremmo capitare, avessimo mai la disgrazia di finire in un letto d’ospedale afflitti da qualche malattia sconosciuta. La verifica di tale “sensazione” vede House pugilare con due rappresentanti del Potere: nella prima stagione tiene testa al miliardario Edward Vogler che pretende di condurre la clinica come la vetrina pubblicitaria delle proprie speculazioni farmaceutiche, esemplificazione della progressiva perdita da parte della medicina contemporanea della propria dimensione antropologica e relazionare a favore di una deriva “iatrotecnica” (tecnologica e commerciale, specialistica ed aziendale).
Nella terza stagione se la vede con la sua nemesi: l’autoritario detective Tritter. La verve politically un-correct di House assume connotati misantropici ed agnostici e viene corroborata da alcuni appropriati accessori estetici (camicia slacciata, scarpe da ginnastica, refrattarietà al camice, motocicletta, barba) e da un supplemento di brutale, spesso offensiva, sfacciataggine con cui affronta colleghi e pazienti. La ruvida espressività del personaggio possiede un volto di Giano: da un lato rispecchia l’incarico a cui il funzionario di corsia è realmente preposto, cioè prendere rapidamente decisioni sgradevoli ed impopolari, se non propriamente “turpi” (amputare bambine, assistere un suicida, sacrificare un neonato per individuare una cura, ecc…), fattore che trasforma la sua medicina in una vera e propria “biopolitica”.
Dall’altro configura House come la versione imbastardita e zoppicante di un superuomo, anche un po’ dandy. Sul lato misantropico si diffonde una cifra psicologizzante offerta dagli sceneggiatori: House porta nel corpo il marchio infamante dell’errore (è una diagnosi sbagliata che gli ha inferto la tara della claudicazione ed i dolori perenni).
Nell’episodio 3×7 lo sceneggiatore gli mette in bocca una chiave di lettura. House spiega l’origine del suo desiderio di studiare la medicina ricordando un paria incontrato in un ospedale in Giappone. Tutti evitavano il contatto con il reietto, secondo le usanze, fin tanto che erano costretti, ma solo nei casi più disperati, a ricorrere alle sue profonde competenze mediche. Dunque House si paragona all’Emarginato, a colui che appartiene alle caste più basse della società il cui periodico rientro (non d’infrangimento) nell’ordine avviene barattando l’anomalia, che gli è propria, con l’esercizio di uno spicchio di competenza tratto dal grande capitale ultra-specialistico dei ruoli previsti dalla società contemporanea.
Visione di una medicina ancora primitiva che discute la Morale, ma non la Legge che l’istituisce.
Questo testo è apparso in una versione differente e corredata di note sulla rivista “Cinergie. Il Cinema e le altre arti”, n. 14, settembre 2007.