A distanza di sette anni da Marguerite (2015), che gli era valso il riconoscimento collaterale Premio Nazareno Taddei, Xavier Giannoli torna in Concorso al Lido con Illusions perdues, imponente opera in costume basata sull’omonimo romanzo di Honoré de Balzac in cui il regista parigino, utilizzando come cornice uno dei grandi spartiacque della storia europea, prova a interrogarsi sul ruolo dell’artista, gli indistinti confini della libertà d’espressione e l’etica dell’informazione, del passato come dei giorni nostri: un’indagine certo non priva di spessore, ma che rivela un approccio forse troppo scolastico alla trasposizione della materia letteraria.
Giovane poeta di talento, Lucien – Benjamin Voisin – ottiene di recarsi a Parigi al seguito dell’aristocratica Louise – Cécile de France –, sua estimatrice nonché amante clandestina. La grande città non risparmia però i suoi colpi allo scrittore di provincia, che a causa di un passo falso si ritrova ostracizzato dall’alta società e privo di mezzi: è proprio all’apice dello sconforto che fa la conoscenza di Etienne – Vincent Lacoste –, caporedattore smaliziato che lo introduce al mondo del giornalismo scandalistico. In breve tempo, la penna di Lucien si fa tagliente e le sue recensioni al vetriolo tengono sotto scacco l’intera scena culturale della capitale: da qui inizierà un’ascesa che lo porterà a rivalersi sui propri detrattori, ma anche a sacrificare tutto ciò in cui credeva nel nome del sùbito guadagno.
Ironia della sorte, per il suo ritorno a Venezia Giannoli sceglie ancora una volta di confrontarsi con un’epoca di drastici cambiamenti nell’ambito del costume e della morale, dominato dalla dialettica tra ricerca di nuove coordinate valoriali da un lato e ritorno all’ordine dell’altro: gli anni Venti di Marguerite cedono qui il passo all’Europa della Restaurazione, che dopo essersi appena dissetata alla fonte degli ideali rivoluzionari si ritrova in men che non si dica a dover sottostare al giogo di un nuovo ancien régime, dove agli aristocratici blasonati – ricomparsi in gran copia conclusasi la stagione delle decapitazioni – si è aggiunta una rapace borghesia, alla ricerca del medesimo prestigio. Tale è la comédie humaine in cui Lucien si ritrova catapultato: la perdita dell’innocenza coincide con la perdita dell’aureola di baudelairiana memoria, ed egli impara ben presto che non esiste nulla che non si sia disposti a scrivere dieto un congruo compenso.
Compiendo un’operazione non diversa da Polanski ne L’ufficiale e la spia (2019), anche Giannoli propone in Illusions perdues una propria indagine filologica sui fenomeni di mistificazione mediatica, dimostrando l’attualità del testo di Balzac a partire dai punti di contatto con la contemporaneità: l’entusiasmo per la diffusione dei giornali satirici, lo sviluppo di nuovi macchinari in grado di riprodurre e diffondere notizie al decuplo della velocità, il potere del passaparola e della pubblicità nel decidere le sorti degli artisti a prescindere dal loro talento ci riportano per forza di cose al di qua dello schermo, alle contraddizioni dell’odierna società dello spettacolo e alla frustrazione di chi vorrebbe produrre arte scevro da condizionamenti, nella cui categoria si rispecchia, evidentemente, anche lo stesso regista.
Sotto i costumi sgargianti e la scrittura forbita, Illusions perdues nasconde pertanto un’anima sfacciatamente postmoderna, nella misura in cui descrive il perpetuo dissidio di chi si approccia al processo creativo in chiave dogmatica ed elitaria, pur sapendosi a sua volta inevitabilmente impuro – e quindi destinato al fallimento – perché dipendente dal favore delle masse.
Come già detto, quindi, la debolezza di Illusions perdues non può necessariamente risiedere nel rigore del suo j’accuse, che è anzi puntale e manifesta appieno l’intento polemico di Giannoli. Semmai, è la messa in scena del testo originale a destare diverse perplessità: nonostante il buon ritmo, si tratta appunto di un lungometraggio pachidermico, dalle strategie narratologiche – basti pensare all’espediente del narratore interno che commenta la vicenda a posteriori, nella persona del rivale Nathan (Xavier Dolan) – pedantemente letterarie, e più in generale improntato a una grandeur che echeggia una concezione di autorialità tanto vetusta quanto snobista, per la quale grandi temi chiamano a sé grandi romanzi, grandi attori, grandi maestranze e sfarzose scenografie.
Non che questo sia un male di per sé, s’intende, ma che il cinéma de papa di Giannoli trovi ancora posto in Concorso al Lido dovrebbe quantomeno lasciare perplessi sulla definizione di novità – non osiamo dire innovazione – di cui il festival si sta facendo alfiere.