Primo film storico in costume per Kurosawa Kiyoshi, il tanto chiacchierato Spy no Tsuma si rivela un prevedibilissimo feuilleton che, rinunciando in partenza ad affrontare criticamente la questione storica, nasconde sotto la patina da telenovela una disarmante vena sciovinista e negazionista.
Kōbe, 1940. Il dirigente d’azienda Yusaku – Issei Takeshi –, cosmopolita e liberale, nel corso di un viaggio d’affari in Manciuria viene a conoscenza dei terribili esperimenti condotti dalle truppe giapponesi sulla popolazione civile, e li immortala su pellicola. Al ritorno in patria, gli agenti della polizia militare capeggiati dall’ufficiale Tsumori Kaiji – Higashide Masahiro – sono già sulle sue tracce, ma con la collaborazione della moglie Satoko – Yū Aoi – riuscirà nel suo intento di rivelare al mondo i crimini dell’Impero. O almeno così sembra…
Fresco di successo sul piccolo schermo con la serie Yochō: Sanpo suru shinryakusha (2017) – arrivata anche nelle sale in un theatrical release composto dai cinque episodi cuciti assieme –, che con il suo minimalismo si era fatta alfiere di una fantascienza antispettacolare e prettamente cerebrale, Kurosawa sembrava aver dimostrato che un’altra televisione è possibile. Eppure, per quanto il metraggio possa nobilitarlo, Spy no Tsuma rappresenta la confutazione del precedente esperimento.
L’ultima fatica di Kurosawa segue infatti alla lettera il manuale del dorama pomeridiano della NHK: fotografia con luce diffusa – per non dire “smarmellata” – in ogni ambiente e a ogni ora del giorno, con luci primarie e secondarie che talvolta entrano persino in conflitto; scenografie poco curate nei dettagli (soprattutto a livello di oggettistica di scena); personaggi tagliati con l’accetta senza spessore psicologico; escamotage ridicoli e prevedibili; interpretazione televisiva nel senso peggiorativo del termine, con mimica facciale e intonazioni esagerate.
Ciononostante, la sospensione di incredulità richiesta allo spettatore – quello cinematografico, s’intende – sarebbe stata ancora sostenibile, se questa fosse stata ripagata con un’opera di genere degna di questo nome, e a conti fatti era proprio questo che era lecito aspettarsi dal regista.
Portato alla ribalta dalla sapiente commistione di elementi orrorifici, erotici e noir, soprattutto dopo Cure (1997) Kurosawa è riuscito a guadagnarsi un posto d’onore non solo nella nicchia del J-Horror, ma più in generale nel panorama produttivo meno snobista – cui fa capo Miike Takashi – della scena giapponese, che non disdegna il botteghino né le major, e riconosce il titolo di autore a maggior ragione a chi vuole sporcarsi le mani con l’exploitation. Per questo, pur vedendo il logo della Nikkatsu e un cast che sul grande schermo compare sempre più di rado – eccezion fatta per Yū Aoi, di cui vogliamo ricordare l’interpretazione al limite in Zan (2018) di Tsukamoto Shin’ya, anch’esso in Concorso al Lido –, era lecito non preoccuparsi troppo.
Tuttavia, Spy no Tsuma non ha nulla della spy story, del thriller storico o di qualunque altra cosa esso avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dell’autore: non c’è climax, e persino il piacere de lieto fine – l’unico coronamento possibile per quasi due ore di mediocrità – è negato.
A lasciare più interdetti è però l’approccio alla materia storica. Anzitutto, il personaggio di Yusaku è una creazione fittizia e strumentale: incarna i valori della Democrazia Taishō (1912-1925), ormai defunti nel pieno del militarismo Shōwa – tanto che in Giappone non vi fu mai un movimento di resistenza comparabile ai partigiani europei – ma, tiene egli stesso a precisare, egli «non è una spia». Creando questo ibrido che non è né traditore del kokutai (ordine nazionale) né collaborazionista, Kurosawa salva capra e cavoli facendo credere che lo spirito del popolo giapponese in tempo di guerra sia rappresentato al meglio da un uomo che conosce la giustizia, ma preferisce attendere la sconfitta del proprio Paese piuttosto che ribellarsi in prima persona alle prevaricazioni dell’Impero.
Il teatro di queste prevaricazioni, il Manchukuo, ovvero lo Stato-fantoccio creato per destabilizzare il processo di riunificazione della Cina nel nome della “Grande Sfera di Coprosperità dell’Asia”, resta fuori campo, al più descritto in quei pochi secondi di filmato girati da Yusaku: non viene mai menzionata direttamente l’Unità 731 – ormai tristemente nota grazie a Men Behind the Sun (1988) ed epigoni –, né gli alti scranni dell’esercito vengono additati come responsabili, come se ufficiali di basso rango come Tsumori Kaiji non fossero semplici burattini indottrinati, ma intimamente “cattivi” e scientemente orchestratori dell’onda nera in Asia Orientale.
Stemperando i toni reazionari con la commossa accettazione della sconfitta, come cosa già prevista e fortunatamente ineluttabile, il film glissa sulla miopia autodistruttiva del Quartier Generale giapponese e del popolo che da questo dipendeva, al contrario convinti fino alla fine che la vittoria fosse l’unico esito possibile.
Infilandoci anche una trita metafora sul cinema come latore di verità e strumento euristico – che suona ancor più come una presa in giro, visto quanto detto sinora – accompagnandola a citazioni più o meno cinefile – il nuovo film di Kenji Mizoguchi, il poster di Ōzora no isho (1941) alle spalle dei due amanti –, Kurosawa sembra voler asserire la sua presenza come intelletto ordinatore dell’intero baraccone, ma è evidente che Spy no Tsuma è poco più di un pamphlet del Nippon Kaigi, tanto da sollevare il sospetto di una commissione.
Pellicola pericolosamente allineata all’ala più destrorsa del Jimintō e alla narrativa sull’impunità dello sconfitto imperante nella scuola pubblica giapponese, Spy no Tsuma rischia di inabissare nuovamente le relazioni diplomatiche non solo con la RPC, ma anche con tutti i vicini asiatici che del Manchukuo subirono la stessa sorte.
A oggi, forse la più grande delusione del Concorso, che purtroppo non incoraggia a rimpolpare la presenza del Giappone alla kermesse veneziana.