Presentato a Locarno 72 in Piazza Grande, To the ends of the Earth suona come un film fantascientifico, esplora alcuni temi cari al genere e viene dopo il dittico del 2017 (Before we vanish, Foreboding) firmato dallo stesso regista ma più che un’aggiunta all’ultimissima fase di Kiyoshi Kurosawa forma un’ideale trilogia assieme a Seventh code e Daguerrotype, con i quali condivide l’ambientazione estera – tutti gli altri titoli della prolifica carriera dell’autore giapponese si collocano in patria.

È davvero necessario inquadrarlo pero? Sì, in parte perché To the ends of Earth ragiona e porta a compimento alcune riflessioni veicolate da Tokyo Sonata in poi poiché affrontare Kurosawa richiede, se c’è la volontà di provare a comprendere fino in fondo il film, fare prima mente locale su quale delle sue tematiche preferite si sta concentrando e in che misura (il ritorno del dimenticato/rimosso, la segreta inquietudine della vita familiare, l’ossessione per le zone di confine) e con che modi e tempi si muove trai registri di riferimento (l’espressionismo gore, il dramma tradizionale nipponico e il fantastico intimo e introspettivo).

In ogni suo film c’è una commistione con diverse proporzioni di tutti questi elementi, e se già alla prima inquadratura appare chiaro come questo film sia inquadrabile come un dramma classico, l’elemento conturbante e violento rimane sullo sfondo, come una presenza inquietante che pedina Yoko, la protagonista interpretata da Atsuko Maeda, una reporter di viaggio che coltiva segretamente il sogno di diventare cantante recatasi in Uzbekistan per un servizio televisivo su un pesce semimitologico. Il terrore è sordo e rimane in lontananza, la sua immagine è sempre mediata dagli schermi televisivi uzbeki increduli nel raccontare una serie di gravi incendi in Giappone. Yoko è preoccupata perché il suo pensiero va al fidanzato pompiere, la sua troupe è convinta che si sia verificata un’altra tragedia sismica o nucleare, la popolazione locale appare turbata dai visitatori, non è tranquilla nel trovarsi dei giapponesi in casa propria come se i problemi fossero un morbo trasmissibile.

To the ends of Earth racconta sì di un viaggio a confini del mondo, del dietrofront davanti a un vicolo cieco che termina con una distesa di rocce e montagne, lontano da quelle acque in cui il macguffin della narrazione voleva farci immergere, ma è soprattutto un film sulla lontananza. Lontananza di una terra, lontananza di un’immagine che appare così sempre imperfetta, lontananza che però permette di guardare le cose da un’inedita, migliore angolazione. Yoko si riappropria di qualcosa che è suo (ma le sfugge) perdendolo, lasciandolo andare per poi ritrovarlo in un percorso catartico fin troppo evidente di pari passo con la ricostruzione metacinematografica che Kurosawa stesso effettua allineando i meccanismi e le relazioni biunivoche tra la macchina da presa e la troupe profilmica, e la troupe e il loro oggetto filmato cioè il reportage. Kurosawa costruisce un percorso di spoliazione e riappropriazione del proprio cinema così come Yoko perde i suoi riferimenti in una climax ascendente: nessuno parla la sua lingua e così rinuncia alla sua parlantina, ella poi perde anche l’orientamento e allo smarrimento geografico alla fine si accompagnerà quello emotivo che la porterà a questionare le sue scelte di vita, prima fra tutte proprio quella di rinunciare al canto, che prende vita nell’opera all’interno di una sequenza onirica, liberatoria per l’emotività restituita dalla protagonista e per il contrasto che genera con l’ambiente opprimente con cui va volutamente a stonare.

Non si tratta di una partitura rivoluzionaria, abbiamo di fronte pur sempre il canovaccio dello straniero che arriva a turbare gli equilibri di un posto sperduto e che di pari passo con la crescente confusione generata verso l’esterno trova un modo per risolvere quella che da tempo si trascinava dietro all’interno, eppure Kurosawa riesce a rivitalizzare la struttura del film con un’altra associazione: quella tra la crisi interiore della protagonista e la nostalgia per il Giappone che si manifesta nella lontananza; nemmeno in questo caso si tratta di un’invenzione originale, il merito del nostro risiede nella finezza e nell’eleganza con cui accosta di volta in volta le due cose ricorrendo a giochi di specchi e riflessi, a raccordi di sguardi e sovrapposizioni calcolate tra le due troupe.

To the ends of the Earth nell’aggiungere un altro tassello al percorso metacinematografico di Kurosawa, così come lo vedeva fare in Seventh code girando intorno al cinema di genere e ancora meglio in Daguerrotype concentrandosi sul concetto di filmato e di immagine (che per inciso rimane il migliore dei tre), ha l’ampiezza di contenuto adatta per offrire un altro potente ritratto narrativo di una crisi interiore (oltre al sogno canoro poi ripreso nell’appassionato finale si veda anche la vitalità con cui Yoko accoglie la necessità di fare un passo più verso l’ignoto) e, in secondo battuta, una riflessione carsica sull’illusione con lo sguardo rivolto più alla sua creazione e al viverci dentro che non al caderne vittima.