Venezia 77 è anche una Mostra di ritorni, il ritorno di Salvatore Mereu al lungometraggio dopo otto anni (Bellas mariposas è del 2012), il ritorno dello scrittore Gavino Ledda sul grande schermo come attore dopo trentasei anni (si veda Ybris, 1984), il ritorno di un grande film italiano con aspirazioni autoriali alla kermesse lagunare dopo magari non altri trentasei, ma comunque molti.

Tratto dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni, Assandira è il lato oscuro della moda degli agriturismi degli anni ’90, una storia che sa di antica tradizione e dello scontro con un mondo che cambia dando solo l’errata impressione di avanzare, una tragedia nel senso etimologico del termine capace di raccontare una storia colma di rabbia prima e rassegnazione poi, di presa di posizione e responsabilità e, da ultimo, di sacro e profano in un senso tutto suo.

La prima immagine che ci colpisce e ci accompagnerà per tutto il film è quella di un abbattuto Costantino, anziano pastore sardo di fronte ai ruderi ancora fumanti dell’agriturismo Assandira da lui gestito con il figlio Mario e dalla nuora Greta: il primo è appena morto schiacciato da una trave mentre la seconda ha perso il figlio all’ottavo mese di gravidanza. Costantino è chiamato a ricostruire la vicenda dal magistrato e di pari passo, con le parole e flashback canonici, Mereu ritorna indietro e piano piano ci svela un complesso intreccio fatto di sentimentalità corrotte e rapporti insani in un triangolo padre-figlio-nuora che scopre uno strato di morbosità dietro l’altro, specie quando la giovane coppia, non riuscendo ad avere un figlio, si rivolge a Costantino per quello che questi definirà intimamente “incesto in provetta”.

Da un lato l’anziano pastore si lascia sedurre dalle forme giunoniche della germanica Greta, Mario di fronte a questa complessità regredisce dando prova del fatto che scappare dalla Sardegna non significa aprire la mente abbastanza da reggere l’urto con il mondo reale mentre Greta perde ogni riferimento di fronte a qualche banconota in più, inseguendo un puerile sogno egoistico, tradendo il marito per qualche recensione positiva o arrivando a sminuire l’incendio dell’inizio/fine del film con uno sgrammaticato “a turisti piace pericolo”. Di questo parla Assandira, di un consumismo che ha devastato una terra, tracciando di pari passo una una storia familiare disarticolata in putrefazione che sullo sfondo di una storia noir allunga le mani della narrazione fino a delineare una specie di guerra di civilizzazione.

Gavino Ledda offre un’interpretazione gigantesca che sarebbe da registrare anche solo per il ribaltamento di fronte che lo vede nel ruolo di padre – lui, autore di Padre padrone -, un padre tradizionalista che subisce le scelte del figlio sobillato dalla moglie teutonica e che alla fine è costretto, in un’ipotetica versione sarda del seppuku, ad assumersi la responsabilità per tutto l’accaduto offrendo in cambio la sua vita come a voler sostituire all’iter giudiziario una cerimonia pagana. L’espediente del voice-over dello stesso personaggio non sarà raffinatissima, ma offre un ritratto compiuto dello iato tra le azioni e le parole di Costantino, parole di un uomo burbero, e il flusso dei suoi pensieri, ben più sviluppato di tutti gli altri personaggi, “più avanzati” soltanto perché piace loro credere di essere tali.

Assandira è anche arrivato a Venezia un po’ di fretta, il montaggio è stato ultimato in tempi brevissimi al di là della difficoltà, e si nota dal fatto che alcuni scambi verbali risultano spesso ridondanti e il progetto ultimato avrebbe avuto bisogno di essere asciugato di un’ulteriore decina di minuti per ritenersi più efficace, ma qualche minuto di troppo non pregiudica un risultato finale di un film sentito, collerico e in grado di offrire un doppio punto di vista (per metà metaforico) su una realtà così particolare e unica come la Sardegna rurale massacrata dall’industria turistica e sul pari massacro emotivo che subiscono coloro i quali abitano quella realtà e se la vedono ribaltare sotto gli occhi; non a caso la critica specializzata evidenzia a più riprese l’influenza della letteratura neocoloniale nel movimento della nuova letteratura sarda, di cui fa parte anche Angioni.

Si tratta di un’opera radicale a suo modo, prendere o lasciare. Per una volta sarebbe forse il caso di prendere, e non di relegare film come questi fuori concorso per farci rappresentare all’estero da film come Padrenostro. Ce ne vogliono, anche se imperfetti, di film così. E non solo per gli altri.