“Bisogna pensarlo come il viaggio di Dante”, dice una delle tante voci narranti del film, Eldorado. L’Africa, il viaggio in mare, la prigionia in Libia sono, per chi fugge, l’inferno; l’Italia, i centri di accoglienza, l’attesa di giudizio, il caporalato sono il purgatorio. Il paradiso, ‘El Dorado’ appunto, è il nord Europa, dalla Svizzera in su, un lavoro onesto, la libertà.
Eldorado, un documentario di Markus Imhoof, regista svizzero già noto per La barca è piena (1981), è pregno di tutta quella autenticità che solo una piccola telecamera portata a mano può dare; un occhio che registra i volti stremati di chi domanda rifugio, il viaggio verso la Svizzera, Paese che li respinge e li rispedisce a casa.
Eldorado è anche la storia di Giovanna, una bambina italiana accolta dai genitori di Imhoof stesso durante la Seconda Guerra Mondiale. È il suo ricordo che lo spinge a intraprendere lo stesso viaggio, ma al rovescio, dalla Svizzera al Mediterraneo.
Recensione di Deborah Osto
C’è una necessità ben precisa dietro a Eldorado, il nuovo film di Markus Imhoof. E la necessità è nuovamente quella di raccontare il dramma dell’immigrazione, che questa volta prende avvio dalla storia personale del regista: ancora bambino, Imhoof conosce Giovanna, giovane rifugiata di guerra italiana, che viene accolta dalla sua famiglia durante gli anni del secondo conflitto mondiale. La sua prematura morte, a seguito dell’espatrio in Italia, è il motivo che spinge il regista svizzero a intraprendere il viaggio che migliaia di migranti sono costretti a fare per raggiungere l’Europa: dalla Libia all’Italia, dall’Italia al Nord Europa. Quello è il loro Eldorado.
Per Imhoof, l’incrocio tra i due itinerari, quello della memoria e quello della realtà, serve a smuovere le coscienze, a riconsiderare una nuova prospettiva per il futuro, che non abbracci sempre e solo un egoistico “io”, ma si apra piuttosto ad un collettivo “noi”.
Recensione di Monica Bortolami
Quello che sorprende in Eldorado è la capacità del regista di immergersi con la macchina da presa all’interno della cruda realtà del viaggio dei migranti, documentandolo allo spettatore con la stessa delicatezza con cui si rivive un ricordo. Markus Imhoof (La barca è piena; Un mondo in pericolo) costruisce il suo documentario partendo dal ricordo di Giovanna, una ragazza che negli anni Quaranta fu una rifugiata in Svizzera e venne ospitata dalla sua famiglia. Utilizzando tracce di un passato che si porta dietro da allora, il regista dona un tocco personale a storie di vita che troppo spesso osserviamo mantenendo le distanze.
Fin dal titolo, è obiettivo dell’autore riportare alla mente un’antica terra nascosta, ricca d’oro e pietre preziose, metà di una felicità inarrivabile. Un viaggio verso la felicità tramandato nei secoli, in questo caso costruito alternando l’amore con cui si guarda al passato e il sarcasmo e l’amara ironia con cui si affronta la società. Le acque del Mediterraneo, i campi profughi del Sud Italia, il confine svizzero, sono le tappe obbligate per storie di uomini in cerca di un destino, nella quale il regista si ferma, seguendo anche lui questo percorso.
Il viaggio, la ricerca di un luogo dove essere liberi, la critica al sistema economico raccontata senza filtri, sono elementi che fungono per analizzare una condizione radicata nella storia. Imhoof immerge la macchina da presa nella crudezza di situazioni che rimandano all’epopea dantesca, dove però il paradiso è solo un illusione e si sogna un Eldorado, una terra immaginaria e inarrivabile. Mantenendo una rispettosa distanza, affronta vicende umane nella quale non c’è un protagonista diretto ma emerge la volontà di seguire il più possibile storie che sbattono contro un sistema che non ha vie d’uscita. La telecamera registra, indaga, si tiene lontana e si offre solo se qualcuno lo richiede, rendendo più forte la consapevolezza sulla realtà che le immagini ci mostrano. Allo stesso modo, il rapporto con il proprio passato permette al regista di far riflettere sulle persone che restano a casa, su chi vede l’amato partire e forse non rivedrà mai più. Così come il giovane Markus aspettava e soffriva la mancanza di Giovanna, ogni uomo che parte in cerca del suo destino lascia qualcuno che ne sentirà la mancanza. In questo modo Eldorado riesce a raccontare una storia universale, fatta di sofferenze e umiliazioni, di sacrifici dolorosi, ma anche di ricordi e affetti immortali.
Viene da domandarsi alla fine quale sia il vero Eldorado. Se non sia la terra dei sogni che si spezzano lungo il percorso, il luogo di partenza nella quale vivono i cari, o semplicemente quella coperta termica dai riflessi dorati che inizia il film dando un istante di sollievo a una sofferenza indescrivibile.
Recensione di Luigi Giacomazzi