Film di apertura della sezione Orizzonti di questa 79esima edizione, Princess segna l’atteso battesimo veneziano di Roberto De Paolis che, affiancando all’attività di regista e fotografo quella di produttore con il suo marchio Young Films, torna finalmente dietro la macchina da presa con un racconto misurato e incredibilmente realistico – ma non per questo privo di punte di lirismo – del giro di prostituzione nell’hinterland della capitale.

Arrivata dalla Nigeria, Princess – l’esordiente Glory Kevin, testimone sulla propria pelle di molte delle esperienze narrate nel film – si prostituisce in una foresta fuori Roma, così come le sue connazionali con cui condivide un’abitazione a Ostia. È abituata a passare da un cliente all’altro senza farci più tanto caso, ma una serie di incontri fortuiti con il timido CorradoLino Musella, uno dei migliori caratteristi nostrani che ha qui finalmente modo di dare prova del suo talento, con all’attivo una moltitudine di ruoli in film d’autore passati al Lido, come Il bambino nascosto (2021) di Andò o Qui rido io (2021) di Martone –, che pare mostrare un sincero interesse verso di lei, la porterà a riconsiderare il proprio stile di vita e aspettative.

Princess

Approcciare cinematograficamente la realtà di periferia della capitale può essere un’operazione rischiosa, a maggior ragione se ci si propone di esplorare il microcosmo di una comunità di invisibili – in questo caso doppiamente invisibili, in quanto immigrate clandestine e prostitute – di cui si parla poco o nulla nel discorso pubblico: da un lato, è facile scadere nel pietismo, mancando di mettere a fuoco la reale estensione della struttura sociale alla base dello sfruttamento della prostituzione, dove il confine tra sfruttatore e sfruttato è a volte sfumato e irriducibile a facili manicheismi; dall’altro, è altrettanto facile cedere alla tentazione di una rappresentazione gangsteristica, antieroica, come purtroppo sembra ormai norma invalsa in tanto cinema partenopeo, epigono di Gomorra, che si ripromette di raccontare la strada per quello che è, finendo poi per confezionare un prodotto di puro intrattenimento che forse sarebbe stato meglio realizzare senza scomodare testimoni e casi di cronaca; infine, e questo vale per i registi di cinema di fiction anziché documentario, sussiste il rischio di fare, per così dire, i conti senza l’oste, scrivendo una sceneggiatura che, nell’intento di restare fedele all’idea originale, non convoca nel processo di scrittura le testimonianze di chi quel mondo lo conosce in prima persona.

Eppure, De Paolis non fa niente di tutto questo, smarcandosi da semplificazioni narrative e convenzioni di genere nel nome di uno spirito d’indagine genuino, fedele anzitutto alle persone di cui si era ripromesso di raccontare la storia. Seguendo e fors’anche migliorando le direttrici del suo esordio Cuori puri (2017), presentato in Quinzaine a Cannes70, dove il confronto tra ideale/spirituale e pragmatico/carnale provocava la deflagrazione della coppia protagonista, accompagnata da una descrizione della vita di borgata ancora in parte legata alla lezione di certo cinema popolare, Princess presenta una periferia che è anzitutto margine, e solo in un secondo momento parte di Roma, spogliata di coordinate familiari in modo da restituire allo spettatore il senso di isolamento delle protagoniste “al lavoro” nella foresta.

Princess

Complice la collaborazione di Kevin e di altre “ragazze di vita” nella stesura della sceneggiatura, De Paolis porta in sala un lungometraggio che non vuole formulare giudizi né gridare la propria indignazione, quanto dimostrare la fondamentale umanità di tutte le categorie umane, dato lapalissiano a prima vista ma spesso messo in discussione dalla morale e dal pregiudizio. Pedinando la sua protagonista nel bosco, senza lasciare che la macchina da presa si discosti per pudicizia dalla consumazione dell’atto – nei limiti della censura, s’intende – e mantenendo una prossemica più intima ai volti degli interpreti rispetto alla comune prassi registica, l’autore romano riesce a renderci partecipi delle regole di quel mondo, riuscendo ad armonizzare le uscite individuali di un cast che, sul set, non di rado abbandonava il copione in favore dell’improvvisazione.

Princess conferma insomma l’estro creativo del suo artefice e della schiera di giovani autori italiani di cui fa parte, che nelle piccole produzioni – le uniche che sembrano al momento possibili, purtroppo – riescono a dare il meglio di sé, a partire dalla sola forza di un’idea: di racconto, di regia, di rappresentazione del reale.