Una famiglia (padre, madre, figlio grande), apparentemente nella Jugoslavia degli anni ’80, è pronta ad accogliere con tutti i sacri crismi in occasione del Natale uno zio che ha fatto fortuna emigrando in Germania. Ma, con il suo arrivo, nella villetta della campagna croata in cui ci si prepara scrupolosamente per la ricorrenza, qualcosa inizia ad andare storto, rivelando una realtà da incubo molto lontana dalle apparenze iniziali…
È un curioso e spiazzante mix di thriller psicologico-cameristico e tragicommedia nera questo debutto nel lungometraggio del duo croato Kapac-Mardešić, presentato a Karlovy Vary 2022 nella neonata sezione Proxima (che, ricordiamo, è andata a sostituire la precedente East of the West, dove una co-produzione serbo-croata come il lavoro in questione avrebbe comunque trovato il proprio spazio congeniale) e premiato a fine festival con una menzione speciale della giuria. Man mano che si procede con la visione e i tentativi di districare gli enigmi che si accumulano nella trama si rivelano sempre più vani, The Uncle pare addirittura trasformarsi in un’allegoria capace di arricchire ulteriormente, e in modo non banale, l’eredità cinematografica balcanica variamente legata alla dissoluzione della Jugoslavia.
Il microcosmo entro cui The Uncle è girato, quasi esclusivamente in interni, inizialmente sembra infatti uscito da un perfetto prontuario di “jugonostalgia” naif, tra vestiti e accessori anni ’80, hit del pop croato dell’epoca, tacchino da servire nei giorni di festa, Mercedes tedesche dei parenti emigrati da sognare e invidiare. Ma il quadretto idilliaco e squisitamente analogico si incrina quando, ben presto, vi fanno misteriosamente breccia realia contemporanei, lasciando intendere come tutto ciò che avevamo visto nelle scene introduttive altro non fosse che una recita curata da un sadico maniaco (o forse, metaforicamente, da un trascendente burattinaio della Storia?), letteralmente ossessionato dalla ricostruzione del passato nei minimi dettagli e senza sbavature – per quanto, ad ogni ostinato tentativo di realizzare lo stesso copione, si perdano sempre più pezzi di questo fragile puzzle, in una spirale di tensione crescente fino alla catarsi finale.
Sono molteplici le interpretazioni che, a fine visione, lo spettatore potrebbe proporre per questo bizzarro e multiforme gioco postmoderno simile a tratti, nelle sue incursioni nel thriller o nel grottesco, ai Funny Games hanekiani o al Dogtooth di Lanthimos. L’importanza del contesto geografico e storico, però, pare innegabile. Cos’è la messinscena dello “zio” carnefice? Un simbolo dell’attaccamento compulsivo al passato jugoslavo pre-guerra, corroborato dagli umori “jugonostalgici” che, comunque, non ne possono celare le imperfezioni? O dei contrasti che, appena dopo gli anni ’80, avrebbero portato a una guerra violentissima anche tra membri delle stesse famiglie (lo zio è serbo, gli altri personaggi croati)? O, semplicemente, rappresentazione degli orrori che, anche molto dopo la guerra di trent’anni fa, continuano a covare nei gangli delle società serba e croata? Quale che sia la risposta, i quesiti che The Uncle pone (e il modo in cui li pone) sono senz’altro molto intriganti.
Un applauso speciale lo merita, poi, la performance di Miki Manojlović: questa stella assoluta del cinema jugoslavo prima e serbo poi, con la sua mimica inconfondibile al di là dei capelli grigi e di altri segni tangibili del tempo trascorso, è assolutamente perfetto nel ruolo dello “zio” aguzzino. In fondo, non sembra poi così cambiato dai tempi in cui ha interpretato, in Underground (1995), il “compagno Marko”, altro personaggio luciferino e privo di scrupoli capace di tenere in ostaggio, congelando il tempo e la Storia in un mondo parallelo e sotterraneo, non solo una famiglia, ma un’intera comunità.